THE UNEDITED

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7/2/2025
Codice ATU-7, CUNEGONDA E I SUOI FRATELLI
by Matteo F.M. Sommaruga

La favola dei tre porcellini dovrebbe corrispondere, secondo l’amica Chat-GPT, al numero sette del lungo catalogo. Ci siamo in realtà resi conto che l’intelligenza artificiale è a tal proposito piuttosto volitiva e, ogniqualvolta la si interroghi, offre una diversa versione dei fatti. Un po’ come un colpevole di fronte a un interrogatorio di polizia. Chi scrive non è però un poliziotto e neppure un autore detective come quello di molti gialli. Gli basta uno spunto da cui partire e liberare la fantasia.

 

QUI INIZIA IL RACCONTO

 

C’era una volta, tanto tempo fa, un castello dai tetti dorati. Lo abitavan in cinque: il re, la principessa e tre principini. Un bel giorno il sovrano, che era rimasto vedovo della regina e si annoiava di tale splendore, decise di partir per Gerusalemme. Affidò le chiavi del reame a Cunegonda, la propria figliola. La quale era tanto bella quanto assennata.

I tre principini eccellevano ciascuno nelle proprie arti, ma avevano ereditato il carattere impetuoso della madre. Perciò il signore del maniero, il giorno della partenza, pronunziò solennemente: “Badate, voi siete mia prole e miei successori nel dominio. Obbedite alla vostra sorella, che se voi siete svelti

Ubaldo, che era il maggiore, si inginocchiò: “Obbedisco per l’amor che vi porto, ma sappiate che nell’arte della scherma io sono il più valente”. “Ciò non smuove il mio giudizio, ma affinché tu non sia più adirato, eccoti in dono una spada dalla lama d’oro”. Ubaldo ringraziò e si ritirò nelle proprie fanciullesche stanze.

Gualtiero, che era il mezzano, compì un elegante inchino: “Osserverò il vostro comando per il rispetto che nutro per la corona, ma sappiate che io sono il più erudito”. “Ciò non muta la mia predisposizione, ma affinché tu non rimanga in collera, ti omaggio di questa penna ricoperta di diamanti”. Gualtiero ne fu particolarmente grato, poiché era penna di sirena, interamente decorata di gemme preziose. Accennò a un inchino e si ritirò nei suoi fanciulleschi quartieri.

Guidalberto, che era il più piccolo, non volle proferir parola e si limitò a esprimer l’assenso con un grugnito. “Le mie casse si sono già svuotate per accontentare i tuoi progetti, ma affinché tu non coltivi rancore, ti lascio una pala pesante come il piombo”. Guidalberto, che si sarebbe atteso ben altro tesoro, afferrò il presente con una sola mano mentre, sbuffando e digrignando i denti, aveva già rivolto i piedi verso le sue fanciullesche camere.

Il re prese commiato anche da Cunegonda, che lo abbracciò con amore filiale e nulla chiese in cambio. “Ho già ereditato la vostra saggezza, mio sire”, pensò la principessa e il sovrano la lesse nella mente.

Passarono i giorni e le settimane, del sovrano non erano giunte notizie. I principini poco se ne curavano, assorti in quel gran da fare cui li spingeva l’istinto. Ubaldo si batteva contro una carovana di fantocci imbottiti di paglia, che lui stesso componeva con gran cura. Erano gli unici avversari con i quali potesse confrontarsi, poiché intorno al castello non vi era che un enorme bosco e un orticello magico per dare alla famiglia reale quel tanto necessario a vivere. Ogni giorno Ubaldo ingrossava le file del suo esercito, prelevando scudi e armature dalle sale che celebravano i suoi antenati. Dopo averle battute con un colpo di spada, chiudeva in letizia la giornata vantandosi delle proprie imprese con i fratelli.

Gualtiero era sempre attento ai racconti del primogenito. Egli era solito raggiungere gli altri principi a tavola, per il desinare, quando aveva terminato la colazione. Poiché gli piaceva dormire ai primi raggi del sole e, anche una volta svegliato dai rumori provenienti dall’orticciolo magico, rimaneva sotto le regali coperte a compiacersi con la lettura dei propri versi. Giacché intorno al castello non vi era altro che un fitto bosco e i topi avevano rosicchiato tutta la pergamena dei codici della biblioteca. Si era salvata solo la Bibbia, che i roditori avean rispettato e dalla quale Gualtiero aveva imparato a leggere e scrivere. Sull'imbrunire, il principe letterato, si ricongiungeva ai familiari intorno al desco e accompagnava i lunghi banchetti declamando i componimenti che gli parevano meglio riusciti. Giacché i fratelli erano analfabeti e il re un poco sordo, nessuno obiettava. La principessa Cunegonda era dotata di eccessivo buon senso per dissentire.

In quel lungo periodo del pellegrinaggio del sovrano alla rotta di Gerusalemme, Gualtiero si sentiva particolarmente ispirato e rese mirabili le gesta di Ubaldo. Queste sopravvivono raccolte nel poema “Il principe della spada”, oggidì tormento degli scolari del ginnasio della città più vicina. Debbono tuttora mandarlo a memoria, di malavoglia, ma essi ignorano le nottate insonni che Guatiero si impose per portarlo a compimento.

Guidalberto, il minore, non protestava al gran cianciare sul roteare della lama reale, poiché, nelle fucine del castello si era ricavato un paio di tappi di sughero. Ben riposti nelle orecchie e ben nascosti dai biondi capelli, questi donavano al principino il silenzio necessario per non essere interrotto nei propri disegni. Ai quali pensava dal sorgere al tramonto del sole, ed anche ben oltre. Se Gualtiero pugnava durante il giorno e Ubaldo componeva durante la notte, il piccolo Guidalberto, che era in vero imponente di statura, armeggiava a tutte le ore e si era guadagnato la fama di insonne.

La sua più grande ambizione era il prosciugamento del lago che si trovava tra il grande bosco e l’orticello. Ne avrebbe utilizzato l’acqua per riempire la fossa di cinta del castello, che era costantemente vuota per buona parte dell’anno, e al contempo avrebbe potuto rivelare la tana della dragonessa Visnù.

Costui, o meglio costi, era una nefasta creatura, assai longeva, ben al di là del computo delle generazioni umane. Nel corso dei secoli più di una principessa, e persino qualche regina, erano finite, per gelosia, nel suo capiente stomaco. Ci sarebbe però voluto un’armata per affrontare la terribile fiera e il castello non era mai stato abitato che dalla real famiglia.

Fagocitata dal mostro scomparve anche la regina madre. Il sovrano e i quattro pargoli in cuor loro non smettevano di compiangerla e ogni mattina Cunegonda recitava le preghiere per l’anima della defunta. Attività che i tre principini disdegnavano, non trovando tempo che per le proprie imprese.

Mentre il re era ancora in viaggio, giunse il giorno di Pasqua. La principessa, come suo solito nelle solennità, si mise a sua volta in cammino per raggiungere la Cattedrale al di là del bosco. Dove, per inciso, sorgeva anche una città e un mercato. Nell’assentarsi, la principessa raccomandò prudenza ai fratelli, i quali, non trovando neppure un istante per il Signore Iddio, ancora meno prestavano attenzione alle parole di Cunegonda. In sua assenza, pensavano, avrebbero potuto investire ogni parte della giornata in quel che più loro dilettava.

Non furono trascorse che poche ore dalla partenza della sorella, che Gualtiero udì rumor di zoccoli. “Un cavallo al galoppo? Non è Cunegonda, lei il suo lo accompagna a piedi affinché non si stanchi!”, si domandò Gualtiero precipitandosi alla torre di guardia. “Abbassate il ponte levatoio, messere!”, urlò una voce femminile. Gualtiero fu preso alla sprovvista, ma non avendo alcunché da temere, specialmente da una fanciulla, si avvicinò alla carrucola che regolava il ponte e fece libero il passaggio alla donzella.

Non appena costei le si fu avvicinata, il giovane principe perse la favella. Quella sconosciuta sarebbe stata in grado di incantare una roccia, tanto profondi erano i suoi occhi scuri e bianco il suo sorriso. I lunghi capelli corvini le cadevano sulle spalle, coprendo graziosamente e modestamente il petto. “Ordunque fate largo”, esclamò Gualtiero pensando di rivolgersi ai fantocci che aveva appena terminato di sistemare. Con un inchino che non avrebbe riservato neppure per suo padre, accolse la sconosciuta nell’avita dimora. “Son uomo d’arme”, spiegò, “ma vi condurrò al desco del desinare, se lo volete”.

La visitatrice non profferì parola e, sorridendo, procedette a passo lento e grazioso fino alla sala dei banchetti. Gualtiero in cuor suo sperava che quel giorno il fratello Ubaldo non si sarebbe mosso dalle sue stanze, sedotto da qualche sogno fantasioso o in preda all’estro compositivo. La fanciulla era di una tale bellezza che non l’avrebbe condivisa con alcuno.

Gualtiero si avviò a prendere la spada di cui gli aveva fatto dono il padre. “Sia mai che il cavaliere dalla lama d’oro non farà breccia nel cuore di tal nobile invitato”, cogitò tra sé e sé senza accorgersi di aver lasciato sola la propria ospite. “Chiedo venia, il vostro arrivo immantinente mi ha lasciato basito”, cercò di giustificarsi Gualtiero, ma non appena il principe ebbe terminata la frase, egli vide il fratello poeta far capolino dalle cucine.

“Non ti inquietare Ubaldo”, rassicurò il secondogenito, “Stavo per allestire la colazione e mi è apparsa la nostra ospite, come una visione”. Se a quella frase la fanciulla sorrise, e divenne ancor più bella, lo sguardo di Gualtiero si raggelò. Il principe guerriero si mise sull’attenti, strinse i fianchi e mise in tale evidenza la scintillante spada. La portava alla cintola, rialzata in maniera da risultare impossibile il non portare gli occhi sulla lama. Quelli scuri della fanciulla, neri come due preziosissime perle, riflessi dal biondo metallo parvero ora rossi come le fiamme dell’inferno.

“Visto che già ti sei occupato delle vivande, vado a chiamare Guidalberto, il quale non sia da noi obliato”, esclamò con voce acuta Gualtiero, ma si pentì all’istante di quanto detto. Ora gli sarebbe toccato lasciar di nuovo sola la bella fanciulla con il proprio fratello. Il minore dei principi era però già sul posto, allertato dall’insolito trambusto.

“E cosa succede? Forse che è già tornato nostro padre dalla Terrasanta?”, chiese meravigliato, ma la loquela fu troncata non appena il suo sguardo si posò sulla graziosa ospite. Colui che di fronte al proprio genitore non aveva saputo esprimere che un grugnito, ora si slanciava nella più generosa accoglienza, con profusione di inchini e salamelecchi. “Cosa succede a te?”, gli chiede il figliuol mezzano, “Cos’è questa danza? Hai trascurato i tuoi progetti e ti sei messo a studiare l’arte dei mondani?”. Il tono della voce era cupo, secco, tutt’altro che scherzoso e ancor meno amichevole. Il sorriso della fanciulla non era scemato, sembrava riempir la stanza e splendere di luce propria.

Non appena i tre fratelli si misero a tavola, la deliziosa ospite si voltò, girando loro le spalle. “Tu l’hai contrariato!”, si rivolse brusco Gualtiero al secondogenito, “Giammai, sarà piuttosto l’estro di Guidalberto ad averle resa l’ospitalità non gradita”, ribattè Ubaldo. Il minore dei principi grugnì come suo solito. Il suono della sua contrarietà apparve però ben più profondo e cavernoso di quanto gli altri due non fossero abituati. “Non far questa tragedia, non ti si addice di fronte ai forestieri”, lo redarguì Gualtiero.

In quel momento i tre furono scossi da una fragorosa risata, che non era quella solitamente attesa da una dolce fanciulla. La misteriosa ospite proiettava sulle mura della sala un’ombra che cresceva con quel terribile suono. Man mano codesto cresceva, man mano assumeva una parvenza bestiale. La donzella aveva assunto la forma di una dragonessa, i folti capelli si erano tramutati in squame e gli incantevoli occhi neri proiettavano ora una tonalità rossa, che ricordava le fiamme della Geenna.

I tre si alzarono di scatto. Gualtiero, il più animoso, impugnò la spada affidatagli dal padre, ma la duttile lama d’oro, tanto adatta a impressionare gli estimatori di ricchezze, poco potè contro le forti squame del mostro. Gli altri due, ben poco adusi alle faccende guerresche, si limitarono a dimostrare il proprio disappunto. I grugniti di Guidalberto neppure si udirono in tutto quel trambusto e, al più, avrebbero potuto destare il sorriso di un involontario spettatore. I principi si raccolsero in un angolo del salone, affrontando il fuoco della dragonessa e il proprio destino.

Costei, certa della vittoria, riprese forme umane: “Da secoli abito il lago che voi tutti conoscete e da secoli mi nutro del cuore delle principesse del vostro maniero. Affrontai il ferro di più di uno dei vostri avi, ma ora le acque del lago si stanno ritirando, segno che il mio tempo è giunto alla fine. Se deserta rimarrà la mia tana, altrettanto lo saranno le rocce del castello”.

La voce della dragonessa, secca e surreale, riecheggiò in tutte le stanze della fortezza, fin nelle segrete e sulla cima dei torrioni. Il mostro costrinse i tre principi in una stanza, serrata da una robusta porta. Avrebbe atteso il rientro del sovrano e della principessa, prima di sterminare l’intera famiglia reale. Ai fratelli non rimase che protestare e reclamare a gran voce, ma non si trovava alcuno nei dintorni, neppure un’orda di briganti.

La prigione era poi il laboratorio allestito da Guidalberto. In un angolo si trovava la pesante pala di piombo dono del padre, ma tanto pesante era il metallo, tanto era flebile di fronte alla massiccia struttura di legno e ferro che chiudeva l’uscio. Nella stanza filtrava la luce del sole, attraverso una feritoia. Un piccione viaggiatore, di quelli che dimoravano nel maniero, vi fece capolino.

Ubaldo, che teneva sempre con sé la penna di sirena dono del padre, si ingegnò di scriver sulla pergamena usata da Guidalberto per i propri progetti. La piuma, ricoperta di diamanti, era però una tortura per le mani delicate del secondogenito e questi, spazinetito, finì per il gettarla in direzione dell’unica apertura della stanza. La penna non potè più essere recuperata ed anche il piccione fuggì via. “Non ci resta che affidarci alla volontà divina”, dissero i tre fratelli in coro, che per la prima volta nella propria esistenza avevano trovato al contempo la comunione di intenti e la fede nel Signore.

I principi si guardarono negli occhi, coperti dalle lacrime, afflitti dal rimpianto. Udirono di nuovo quella fragorosa risata che poco prima aveva accompagnato la trasmutazione della dragonessa. Vi furono attimi di silenzio, alternati al fragore del metallo che si scontrava sul metallo e altri, indicibili, misteriosi suoni. Quando la porta della stanza si aprì, i tre videro Cunegonda che si avvicinava per abbracciarli. “Oh nostra sorella infelice, sia giunto dunque il nostro momento”, recitarono in coro Gualtiero, Ubaldo e Guidalberto, ormai avvinti dal panico e dalla disperazione.

Cunegonda però sorrise e dietro di lei comparve la figura del sovrano. Il quale nella destra impugnava una spada sanguinante e nella sinistra la testa della dragonessa. “Con la forza della preghiera, mostrandole la croce, il mostro ha perso il potere”, chiarì la principessa. “Con la precisione di un colpo ben assestato, senza cercar la gloria, il mostro perse il capo”, aggiunse imperturbabile il sovrano.

Ai principi non rimase che gioire insieme al sovrano e alla principessa, facendo ammenda della propria vanità. A Cunegonda il sovrano, di cui le cronache tralasciano di riportare il nome, lasciò la corona. I tre fratelli invece lasciarono il castello, nel quale avevano trascorso l’intera vita. Girarono il mondo conosciuto, per sincerarsi di non esser campioni né di cose guerresche, di poesia e neppure di meccanica. Incontrarono però tre brave principesse lor pari, vi si maritarono, e vissero giorni lieti fino alla loro morte.

 

A me, che frugo tra gli archivi e tramando queste cronache, nulla mi diedero.

 

FINE DEL RACCONTO