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Codice ATU-2 “The Children of Hameln" (Sara e l’economia delle caldarroste)

by Matteo F.M. Sommaruga

C’era, tanto tempo fa, una cittadina a metà strada tra le Alpi e il mare. Sono passati tanti anni da non riuscire a ricordarmi il nome. Non mi sono però dimenticato le caldarroste che all’avvicinarsi dell’inverno, quando le giornate si erano già accorciate, venivano preparate nella piazza dell’antico re di bronzo. Che poi era una piazzetta piccina, dove avrebbero difficilmente trovato spazio per manovrare, nello stesso momento, due carrozze.

 

Sara, la bella venditrice di caldarroste, non viaggiava in landò. Arrivava tutti i giorni di buon mattino con la cesta di castagne sulle spalle, accendeva il fuoco sotto l’enorme pentolone e, per l’orario in cui i bambini uscivano da scuola, le caldarroste erano pronte. Sara adorava i suoi clienti, grandi e piccoli, e assieme alle caldarroste si prodigava in mille saluti di ogni genere. Il suo sorriso curava gli anziani dalla nostalgia della gioventù e i più piccoli dalla malinconia legata a un brutto voto o dalla lite con il proprio migliore amico. Da parte loro, il variegato gruppo dei clienti di Sara contribuiva a mantenere allegra e colorata la piazza del Re de Bronz anche durante le giornate più grigie, quelle in cui alla nebbia si alternava la pioggia e non si vedeva mai il sole. La vita di Sara non era però mai ricca di sorprese, anzi scorreva piuttosto monotona. L’unico strappo a quel regime, le veniva concesso quando le castagne dovevano scaldarsi ancora un poco, i bambini erano impegnati con le prime lezioni del mattino e gli altri mercanti che si affacciavano sulla piazza avevano appena finito di risistemare i propri banchetti e le proprie vetrine.

 

Allora Sara si poteva allontanare giusto qualche minuto dal banchetto delle caldarroste per visitare questo o quell’altro carretto e rimirare i prodotti del momento. Che purtroppo, spesso, non poteva permettersi di acquistare. “Cosa importa poi, di posseder qualcosa di prezioso se non rimane altro che lasciarlo su una mensola a prender polvere. Senza pagar nulla, posso veder ogni giorno delle novità da tutto il mondo, e non mi costa nulla”, pensava Sara, che era povera, ma anche parsimoniosa.

 

Un bel giorno, una di quelle luminose giornate che ricordano il miracolo di San Martino, Sara si avvicinò al negozio di animali di mastro Tobia. “Così devono essere gli zoo delle grandi città”, pensava Sara tutte le volte che vi si avvicinava. Il bianco cagnolone del proprietario le faceva sempre le feste, perché lei non mancava di portar seco qualche castagna da condividere con le deliziose creature di mastro Tobia. Quel giorno però l’occhio curioso di Sara si concentrò su due pappagalli che rendevano il negozio particolarmente colorato. Erano due esemplari che, dal capo fino alla punta delle piume, avrebbero potuto misurare più di un metro, forse un metro e mezzo. Sara non era molto abile in questo genere di valutazioni.

“Chissà quante castagne mangeranno, durante tutta la giornata”, si domandò la ragazza. Le piume di quegli uccelli erano di un rosso sfolgorante, interrotto solo da alcune strisce dalla tonalità indefinita. A Sara di primo acchito parvero bianche, poi, quando i due uccelli, che erano dei pappagalli, si misero a parlare, le piume sembrarono riflettere la brillantezza dell’oro. “Saranno mai dotati di poteri magici? Hanno un che di strano, di esotico.Molto più di quanto un pappagallo possa sembrare tale. Che poi, i pappagalli saranno anche esotici, ma in questo mondo moderno li trovi un po’ dovunque. Un po’ come l’ananas, che finisce anche sulle pietanze tradizionali”. Sara, a suo modo, sapeva elaborare dei pensieri complessi in testa, molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da una venditrice di caldarroste. Del resto, vi sono anche eloquenti avvocati che non sono in grado di ragionare al di fuori dai binari del codice che han studiato.

 

Sara tornò al banchetto delle caldarroste, ma anche quando le si avvicinavano i clienti a lei più affezionati, le era difficile distrarre la mente da quei due pappagalli dalla chioma rossa. Mentre consegnava i pacchetti di caldarroste, li immaginava volare di fronte a sé, posarsi sul suo carretto, chiederle con il cenno del becco un paio di castagne. Sara era totalmente rapita dalla loro visione che, per la prima volta nella sua vita, provò piacere all’idea di possedere qualcosa al di fuori dello stretto indispensabile per la sopravvivenza.

 

La ragazza si considerava povera, e tale tutti la reputavano, ma nell’angolo più angusto di casa aveva accumulato negli anni un buon numero di monete d’oro. “Per la vecchiaia”, si ripeteva tutte le volte che contava quel mucchietto di prezioso metallo, aggiungendovi, all’occasione, un pezzettino. Sara però stava perdendo il senno e, preso il sacchetto di pecunia, si avviò per la piazza del Re de Bronz. Questa volta non per vendere, ma per comprare.

 

 A passo deciso, ignorando il suo banchetto delle caldarroste e la frotta di bambini che vi si faceva intorno, la ragazza entrò nel negozio di mastro Tobia. “Buongiorno Sara, qual buon vento. Come posso aiutarti? Non sei impegnata con le castagne?”, le sorrise il negoziante, che talvolta aveva la sua malizia. Propria, del resto, di tutti coloro che si affidano al dio Hermes. “Avete ragione mastro Tobia, i bambini mi attendono e occorre fare in fretta”, rispose

Sara, allargando gli occhi per girarsi intorno e curiosare  se i pappagalli non fossero già stati venduti. “Cerchi qualcosa di particolare?”, le fece mastro Tobia, che invece strinse gli occhi premeditando la conclusione di un buon affare. “Ecco, desidero acquistare i vostri pappagalli, quei due pappagalli rossi che tenete spesso in vetrina”, rispose Sara, quasi titubante. “Ecco, ecco cosa voleva”, meditò tra se e se il venditore di animali, cercando di immaginare quanto la fanciulla avrebbe potuto permettersi di elargire. Il negozio di mastro Tobia manteneva difatti il fascino di quelle botteghe dalla vecchia maniera, dove il cartellino dei prezzi non era esposto al pubblico, ma il montante per la compravendita veniva pattuito a seconda della bisogna e dell’abilità delle due parti in causa.

 

Mastro Tobia addocchiò il sacchetto che Sara stringeva tra le mani con tanta cura e le chiese: “Cos’hai lì dentro?”. La voce del mercante suonava melliflua e suadente. Sara, che considerava mastro Tobia un vicino di banco e collega, si fidò di mostrargli interamente il contante così gelosamente custodito.

 

“Bene bene, ne hai abbastanza per garantirti la proprietà delle due bestiole. Ma bada bene, dovrai prestar loro il massimo riguardo, perché sono animali sensibili e intelligenti. Se li trascurerai, ti abbandoneranno ed io non ti restituirò i tuoi quattrini”, ammonì mastro Tobia, il quale si premurò di approfittare dello stato d’animo di Sara per toglierle di mano il gruzzoletto. La caldarrostaia, incantata dall’idea di possedere i due pappagalli rossi, non si accorse neppure di aver concluso il patto e si diresse verso la gabbia dei due animali. “Per oggi non potrò lavorare, è più prudente che porti i miei nuovi amici nella mia casetta, all’aperto prenderanno freddo e si ammaleranno. Il Signore non voglia che succeda loro un malaugurato evento”, si disse Sara e, salutando distrattamente, sortì dalla bottega di mastro Tobia.

 

“Come vi chiamate?”, chiese Sara ai due pappagalli, il cui colore irradiava la misera stanzetta che costituiva la dimora della venditrice di caldarroste. Un antro dalle pareti grigie, dove le uniche tonalità erano date dalle travi, in solido legno di quercia, del soffitto e delle finestre, nonché dai sacchi di castagne depositati sul pavimento. Sara aveva un solo tavolino, sul quale pranzava e, a fine giornata, teneva i conti del suo banchetto. Vi posò sopra la gabbia degli uccelli e aggiunse: “Rimarrete qui, questo sarà il vostro posto d’onore. Nella ciotola della zuppa posso attingere il pane anche rimanendo in piedi e per far di conto mi basterà il letto”.

 

Ma il letto non le bastò, perché nei giorni seguenti Sara iniziò ad allungare la sua pausa per il pranzo, a sortir dall’uscio di tarda mattinata e tornarvi ben prima dell’imbrunire. Pur di non lasciar soli i due pappagalli, che incantavano la nuova padrona agitando le ali e facendo sfoggio della loro conoscenza del linguaggio umano. Il loro nome restava però ignoto. Quando un giorno, incontrato mastro Tobia al di fuori della bottega, Sara lo interrogò al proposito, ma l’astuto mercante le rispose che tale informazione gli era del tutto ignota. “Ma dimmi, Sara, ti vedo sempre meno al tuo banchetto. I bambini e i vecchi si lamentano che senza di te la piazza del Re de Bronz non è più la stessa”. Sara gli rispose di pazientare, ma che ora doveva dedicare il suo tempo ai pappagalli.

 

Che finì col crescere, la porzione della giornata destinata a quei maestosi esseri, fino a decretare il quasi abbandono del banchetto delle caldarroste. La fanciulla, ormai del tutto priva di entrate, iniziò a nutrirsi delle castagne che avrebbe dovuto riservare alla propria clientela. Erano della migliore qualità, perché fino a quel momento gli avventori, abituali e non, del banchetto delle caldarroste, avevano ricevuto tutte le migliori attenzioni. Costituivano in un certo senso l’intero mondo di Sara, e forse persino la sua famiglia. Nelle mani vecchie e ossute, solcate dalle vene blue, dei signori più attempati, la ragazza rivedeva quelle del suo nonno. Negli occhi dei genitori riconosceva il sentimento del suo papà e delle sua mamma, che le trasmettevano i propri abbracci. Nei sorrisi dei bambini, la propria infanzia, quando raccoglieva con passione le castagne nei boschi ripetendo che un giorno le avrebbe anche cotte e vendute, facendone una professione. Ora però il cervellino di Sara era rivolto altrove e neppure si accorgeva che un universo, per quanto in miniatura, rimpiangeva la sua assenza.

 

Se ne lamentava anche mastro Tobia, “Avrei dovuto essere meno avido. Sono riuscito a vendere quei pappagalli, ma senza lo splendore delle loro piume, chi si ferma a rimirare le vetrine del mio esercizio? Coniglietti e tartarughine a distanza non si vedono. E senza quella caldarrostaia benedetta, non passano qui di fronte neppure i bambini nel doposcuola”. Mastro Tobia non era l’unico a veder diminuire il volume dei propri affari. Anche il fioraio, il cartolaio e il prestinaio, il quale era inoltre pasticciere, non erano felici del nuovo corso della piazzetta. Se i clienti si diradavano anche in uno solo di quei negozi, conseguentemente ne perdevano tutti i banchetti limitrofi. Per la piazzetta del Re de Bronz, la passione di Sara per i due pappagalli era diventata una vera sciagura.

 

La caldarrostaia non navigava in migliori acque, poiché i pappagalli iniziavano a lamentarsi della monotona dieta a base di castagne. La povera Sara era disperata, perché i sacchi di iuta che contenevano le castagne erano ormai vuoti e non sapeva più come sfamare né se stessa, né le proprie creature. “Se vuoi saper come ci chiamiamo”, dissero improvvisamente i due volatili, vedendo la caldarrostaia girare in tondo nella piccola stanza, colta da un'irrefrenabile isteria, “Noi siam Disgrazia e Spensieratezza. Se non ci nutrirai come hai fatto finora, apriremo la gabbia con i nostri artigli, sfonderemo i vetri della finestra con i nostri becchi e ce ne voleremo via”. Fu a quelle parole che Sara si accorse della miseria della sua casetta e della follia delle sue azioni. “Voi ve ne andrete, ma come dico io. Se mastro Tobia non vi vorrà indietro, allora vi scambierò per due sacchi di castagne e, con fortuna e dedizione, ritornerò alla mia vita”, pensò Sara tra sé.

 

Maestro Tobia non si fece ripetere due volte l’offerta e, in uno slancio di generosità, restituì a Sara metà della somma originariamente pattuita. “Son diventati vecchi, è passato del tempo, son stati mal nutriti…”, cercò di giustificarsi mastro Tobia con la caldarrostaia. In realtà non era passato neppure un anno, che nella vita ottuagenaria di un pappagallo è ben poca cosa, ma Sara non se ne curò.

 

Con una parte della somma intascata, la fanciulla riavviò il suo banchetto. Era di nuovo autunno e i bambini accorsero in piazza del Re de Bronz con l’entusiasmo di sempre. I commercianti tutt’intorno videro i propri affari rinvigorire. Mastro Tobia, congratulandosi con se stesso, perse di vista i due pappagalli. I quali, aperta la gabbia in cui erano rinchiusi con i propri artigli, se ne volaron via. “Poco importa, non li ho pagati che una frazione dell’oro che mi hanno fruttato. Di Disgrazia e Spensieratezza non ne ho più bisogno. Mi bastano il profumo delle caldarroste e il sorriso di Sara.”

 

Questo accadde tanto tempo fa ed io ne fui testimone. I dettagli di quel che non vidi, fu Sara a fornirmeli, ma le caldarroste dovetti pagargliele.

 

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