Geopolitiche della comunicazione, Design Thinking (DT) e Immaginazione letteraria
In un momento storico di disagio comune, è necessario sviluppare nuovi sguardi. Imparando ad avere il coraggio di partire, imparando a non avere paura di tornare. Tornare per raccontarsi tutto. E il ritorno può essere la risposta che consola e dà valore alla nostra irrequietezza. La dimensione del ritorno è essenziale anche per rimettersi poi cammino. Come Ulisse che torna a Itaca e quel luogo non è più come lo aveva lasciato.: la sua casa e suoi familiari sono derisi impoveriti, indifesi, forse rassegnati.
La domanda da porsi è “che ci faccio/che ci facciamo qui” una domanda che ricorda un libro quello di Bruce Chatwin pubblicato pochi mesi prima della sua morte avvenuta nel 1989.
Un libro che ruota attorno al il senso della prospettiva di chi si mette in viaggio. Che ci faccio qui? Che ci faccio in questo posto? Che ci faccio in questa città , in questo paese? in questo lavoro? Come domanda, ricorrente e assillante, che tutti ci poniamo.
Chatwin non si era appassionato al comunismo sovietico, né ai cataclismi della rivoluzione culturale cinese, né al marxismo in salsa hippie pacifista. Rifiutava ogni totalitarismo, non credeva alle “magnifiche sorti e progressive”, e quindi ad un concetto indefinito di progresso. Non riteneva i sistemi di governo esportabili come fossero un paio di scarpe; detestava il terzomondismo specioso.
Nel 1958 iniziò a lavorare per la prestigiosa casa d’aste londinese Sotheby’s. Grazie alla sua brillantezza e sensibilità in materia di percezione visiva, ne divenne presto l'esperto impressionista. All’età di ventisei anni abbandonò il suo lavoro per paura di perdere la vista a causa di tanta arte. Un oculista lo rassicurò: non c'era niente che non andasse nei suoi occhi, tuttavia gli consigliò di smettere di osservare i quadri così da vicino e di rivolgere piuttosto lo sguardo verso “l’orizzonte”.
E chi “cammina” riconosce, come suggerisce Franz Hessel , che nell'andare a passeggio senza meta c’è del dannoso dilettantismo. Se stabilisci di andare in un certo posto, forse ti capiterà di deviare gradevolmente dal percorso deciso, ma una deviazione presuppone sempre una meta stabilita.
Il Design Thinking (DT) si potrebbe in maniera molto vaga, sintetica e indefinita descrivere come un modello progettuale volta alla risoluzione di problemi complessi attraverso visione e gestione creative. Si è diffuso intorno agli anni Duemila grazie ad alcune concettualizzazione prodotte in California nell'Università di Stanford (Dell'Era 2018) per supportare i processi di innovazione che non solo ambiscono a sviluppare soluzioni originali, ma anche a identificare direzioni strategiche e scenari di sviluppo che siano rilevanti per le aziende che li perseguono. Rimette al centro le persone non solo in relazione ai bisogni che possono esprimere nei confronti di prodotti e servizi, ma anche, se non soprattutto, in relazione ai valori che rendono i medesimi prodotti e servizi di senso
Questa breve riassuntiva definizione è ovviamente insufficiente e forse inutile soprattutto per imprese culturali come per studenti, professionisti, manager che vogliano utilizzare il DT come tool kit conoscitivo.
Per raccontare il DT senza imprigionarlo in recinti concettuali e operativi ci serviremo del dialogo e dello scambio avuto con un significativo e inconsapevole preconizzatore dei paradigmi del DT Jeffrey Schnapp umanista e appassionato studioso della civiltà italiana si mette a riflettere su come oggi la cultura (e chi fa impresa culturale o la studia o la impara) e i processi di civilizzazione possono trovare nuove “approdi” utilizzando, e non subendo, i processi trasformativi indotti dal digitale.
Inoltre per rinforzare l'argomentazione dell'indefinitezza del DT vorrei riprendere la bellezza concreta e sincera di Eugenio Montale quello di Non chiederci la parola. Che nel 1925 scrive: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco, lo dichiari e risplenda come un croco, perduto in mezzo a un polveroso prato. Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Il suo è il nostro rifiuto di ogni facile ottimismo consolatorio, per non estraniarsi da quanto avviene nel mondo. Invita a meditare sulla crisi di certezze dell'uomo contemporaneo, che spesso cade nell'inganno di poter trovare una formula risolutiva o una spiegazione certa alle sue inquietudini e alle vicende della storia.
A causa delle nostre teorie generalizzanti non ci rendiamo ben conto che in ogni periodo storico convivono, sullo stesso territorio e nello stesso momento, formazioni sociali diverse. Sono le prospettive preconizzate in un realismo spietato da Gino Germani.
Il nostro attuale contesto di modernità estrema è caratterizzato dalle asincronie situazionali: dalla coesistenza di formazioni sociali tipiche di tempi storici diversi con le loro diverse culture tradizioni e mentalità. È come se ciascuno di noi, chi più chi meno, dovesse adattarsi, talvolta nel corso della stessa giornata, a interagire con persone, situazioni e contesti tipici di epoche storiche diverse dalla presente e viva .
Le asincronie sono le sfasature temporali attraversate dai processi di cambiamento tipici della modernizzazione. Per Germani si producono continuamente senza che esse siano percepite e, quindi, concettualizzate. Tipico il caso di società agricola tradizionale e società industriale manifatturiera oppure quello di società industriale e società terziarizzata. In queste situazioni, rese più o meno drammatiche, a seconda delle culture e delle società, delle diverse configurazioni delle strutture familiari e dei rapporti tra i generi e le generazioni, si determinano conflitti, anche molto radicali, non solo a causa dei contrapposti interessi materiali ma anche a causa dei diversi sistemi di valori, ideologie o stili di vita.