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Progetto Novello Calvino

Codice ATU-2 “The Children of Hameln" (Sara e l’economia delle caldarroste)

C’era, tanto tempo fa, una cittadina a metà strada tra le Alpi e il mare. Sono passati tanti anni da non riuscire a ricordarmi il nome. Non mi sono però dimenticato le caldarroste che all’avvicinarsi dell’inverno, quando le giornate si erano già accorciate, venivano preparate nella piazza dell’antico re di bronzo. Che poi era una piazzetta piccina, dove avrebbero difficilmente trovato spazio per manovrare, nello stesso momento, due carrozze.

 

Sara, la bella venditrice di caldarroste, non viaggiava in landò. Arrivava tutti i giorni di buon mattino con la cesta di castagne sulle spalle, accendeva il fuoco sotto l’enorme pentolone e, per l’orario in cui i bambini uscivano da scuola, le caldarroste erano pronte. Sara adorava i suoi clienti, grandi e piccoli, e assieme alle caldarroste si prodigava in mille saluti di ogni genere. Il suo sorriso curava gli anziani dalla nostalgia della gioventù e i più piccoli dalla malinconia legata a un brutto voto o dalla lite con il proprio migliore amico. Da parte loro, il variegato gruppo dei clienti di Sara contribuiva a mantenere allegra e colorata la piazza del Re de Bronz anche durante le giornate più grigie, quelle in cui alla nebbia si alternava la pioggia e non si vedeva mai il sole. La vita di Sara non era però mai ricca di sorprese, anzi scorreva piuttosto monotona. L’unico strappo a quel regime, le veniva concesso quando le castagne dovevano scaldarsi ancora un poco, i bambini erano impegnati con le prime lezioni del mattino e gli altri mercanti che si affacciavano sulla piazza avevano appena finito di risistemare i propri banchetti e le proprie vetrine.

 

Allora Sara si poteva allontanare giusto qualche minuto dal banchetto delle caldarroste per visitare questo o quell’altro carretto e rimirare i prodotti del momento. Che purtroppo, spesso, non poteva permettersi di acquistare. “Cosa importa poi, di posseder qualcosa di prezioso se non rimane altro che lasciarlo su una mensola a prender polvere. Senza pagar nulla, posso veder ogni giorno delle novità da tutto il mondo, e non mi costa nulla”, pensava Sara, che era povera, ma anche parsimoniosa.

 

Un bel giorno, una di quelle luminose giornate che ricordano il miracolo di San Martino, Sara si avvicinò al negozio di animali di mastro Tobia. “Così devono essere gli zoo delle grandi città”, pensava Sara tutte le volte che vi si avvicinava. Il bianco cagnolone del proprietario le faceva sempre le feste, perché lei non mancava di portar seco qualche castagna da condividere con le deliziose creature di mastro Tobia. Quel giorno però l’occhio curioso di Sara si concentrò su due pappagalli che rendevano il negozio particolarmente colorato. Erano due esemplari che, dal capo fino alla punta delle piume, avrebbero potuto misurare più di un metro, forse un metro e mezzo. Sara non era molto abile in questo genere di valutazioni.

“Chissà quante castagne mangeranno, durante tutta la giornata”, si domandò la ragazza. Le piume di quegli uccelli erano di un rosso sfolgorante, interrotto solo da alcune strisce dalla tonalità indefinita. A Sara di primo acchito parvero bianche, poi, quando i due uccelli, che erano dei pappagalli, si misero a parlare, le piume sembrarono riflettere la brillantezza dell’oro. “Saranno mai dotati di poteri magici? Hanno un che di strano, di esotico.Molto più di quanto un pappagallo possa sembrare tale. Che poi, i pappagalli saranno anche esotici, ma in questo mondo moderno li trovi un po’ dovunque. Un po’ come l’ananas, che finisce anche sulle pietanze tradizionali”. Sara, a suo modo, sapeva elaborare dei pensieri complessi in testa, molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da una venditrice di caldarroste. Del resto, vi sono anche eloquenti avvocati che non sono in grado di ragionare al di fuori dai binari del codice che han studiato.

 

Sara tornò al banchetto delle caldarroste, ma anche quando le si avvicinavano i clienti a lei più affezionati, le era difficile distrarre la mente da quei due pappagalli dalla chioma rossa. Mentre consegnava i pacchetti di caldarroste, li immaginava volare di fronte a sé, posarsi sul suo carretto, chiederle con il cenno del becco un paio di castagne. Sara era totalmente rapita dalla loro visione che, per la prima volta nella sua vita, provò piacere all’idea di possedere qualcosa al di fuori dello stretto indispensabile per la sopravvivenza.

 

La ragazza si considerava povera, e tale tutti la reputavano, ma nell’angolo più angusto di casa aveva accumulato negli anni un buon numero di monete d’oro. “Per la vecchiaia”, si ripeteva tutte le volte che contava quel mucchietto di prezioso metallo, aggiungendovi, all’occasione, un pezzettino. Sara però stava perdendo il senno e, preso il sacchetto di pecunia, si avviò per la piazza del Re de Bronz. Questa volta non per vendere, ma per comprare.

 

 A passo deciso, ignorando il suo banchetto delle caldarroste e la frotta di bambini che vi si faceva intorno, la ragazza entrò nel negozio di mastro Tobia. “Buongiorno Sara, qual buon vento. Come posso aiutarti? Non sei impegnata con le castagne?”, le sorrise il negoziante, che talvolta aveva la sua malizia. Propria, del resto, di tutti coloro che si affidano al dio Hermes. “Avete ragione mastro Tobia, i bambini mi attendono e occorre fare in fretta”, rispose

Sara, allargando gli occhi per girarsi intorno e curiosare  se i pappagalli non fossero già stati venduti. “Cerchi qualcosa di particolare?”, le fece mastro Tobia, che invece strinse gli occhi premeditando la conclusione di un buon affare. “Ecco, desidero acquistare i vostri pappagalli, quei due pappagalli rossi che tenete spesso in vetrina”, rispose Sara, quasi titubante. “Ecco, ecco cosa voleva”, meditò tra se e se il venditore di animali, cercando di immaginare quanto la fanciulla avrebbe potuto permettersi di elargire. Il negozio di mastro Tobia manteneva difatti il fascino di quelle botteghe dalla vecchia maniera, dove il cartellino dei prezzi non era esposto al pubblico, ma il montante per la compravendita veniva pattuito a seconda della bisogna e dell’abilità delle due parti in causa.

 

Mastro Tobia addocchiò il sacchetto che Sara stringeva tra le mani con tanta cura e le chiese: “Cos’hai lì dentro?”. La voce del mercante suonava melliflua e suadente. Sara, che considerava mastro Tobia un vicino di banco e collega, si fidò di mostrargli interamente il contante così gelosamente custodito.

 

“Bene bene, ne hai abbastanza per garantirti la proprietà delle due bestiole. Ma bada bene, dovrai prestar loro il massimo riguardo, perché sono animali sensibili e intelligenti. Se li trascurerai, ti abbandoneranno ed io non ti restituirò i tuoi quattrini”, ammonì mastro Tobia, il quale si premurò di approfittare dello stato d’animo di Sara per toglierle di mano il gruzzoletto. La caldarrostaia, incantata dall’idea di possedere i due pappagalli rossi, non si accorse neppure di aver concluso il patto e si diresse verso la gabbia dei due animali. “Per oggi non potrò lavorare, è più prudente che porti i miei nuovi amici nella mia casetta, all’aperto prenderanno freddo e si ammaleranno. Il Signore non voglia che succeda loro un malaugurato evento”, si disse Sara e, salutando distrattamente, sortì dalla bottega di mastro Tobia.

 

“Come vi chiamate?”, chiese Sara ai due pappagalli, il cui colore irradiava la misera stanzetta che costituiva la dimora della venditrice di caldarroste. Un antro dalle pareti grigie, dove le uniche tonalità erano date dalle travi, in solido legno di quercia, del soffitto e delle finestre, nonché dai sacchi di castagne depositati sul pavimento. Sara aveva un solo tavolino, sul quale pranzava e, a fine giornata, teneva i conti del suo banchetto. Vi posò sopra la gabbia degli uccelli e aggiunse: “Rimarrete qui, questo sarà il vostro posto d’onore. Nella ciotola della zuppa posso attingere il pane anche rimanendo in piedi e per far di conto mi basterà il letto”.

 

Ma il letto non le bastò, perché nei giorni seguenti Sara iniziò ad allungare la sua pausa per il pranzo, a sortir dall’uscio di tarda mattinata e tornarvi ben prima dell’imbrunire. Pur di non lasciar soli i due pappagalli, che incantavano la nuova padrona agitando le ali e facendo sfoggio della loro conoscenza del linguaggio umano. Il loro nome restava però ignoto. Quando un giorno, incontrato mastro Tobia al di fuori della bottega, Sara lo interrogò al proposito, ma l’astuto mercante le rispose che tale informazione gli era del tutto ignota. “Ma dimmi, Sara, ti vedo sempre meno al tuo banchetto. I bambini e i vecchi si lamentano che senza di te la piazza del Re de Bronz non è più la stessa”. Sara gli rispose di pazientare, ma che ora doveva dedicare il suo tempo ai pappagalli.

 

Che finì col crescere, la porzione della giornata destinata a quei maestosi esseri, fino a decretare il quasi abbandono del banchetto delle caldarroste. La fanciulla, ormai del tutto priva di entrate, iniziò a nutrirsi delle castagne che avrebbe dovuto riservare alla propria clientela. Erano della migliore qualità, perché fino a quel momento gli avventori, abituali e non, del banchetto delle caldarroste, avevano ricevuto tutte le migliori attenzioni. Costituivano in un certo senso l’intero mondo di Sara, e forse persino la sua famiglia. Nelle mani vecchie e ossute, solcate dalle vene blue, dei signori più attempati, la ragazza rivedeva quelle del suo nonno. Negli occhi dei genitori riconosceva il sentimento del suo papà e delle sua mamma, che le trasmettevano i propri abbracci. Nei sorrisi dei bambini, la propria infanzia, quando raccoglieva con passione le castagne nei boschi ripetendo che un giorno le avrebbe anche cotte e vendute, facendone una professione. Ora però il cervellino di Sara era rivolto altrove e neppure si accorgeva che un universo, per quanto in miniatura, rimpiangeva la sua assenza.

 

Se ne lamentava anche mastro Tobia, “Avrei dovuto essere meno avido. Sono riuscito a vendere quei pappagalli, ma senza lo splendore delle loro piume, chi si ferma a rimirare le vetrine del mio esercizio? Coniglietti e tartarughine a distanza non si vedono. E senza quella caldarrostaia benedetta, non passano qui di fronte neppure i bambini nel doposcuola”. Mastro Tobia non era l’unico a veder diminuire il volume dei propri affari. Anche il fioraio, il cartolaio e il prestinaio, il quale era inoltre pasticciere, non erano felici del nuovo corso della piazzetta. Se i clienti si diradavano anche in uno solo di quei negozi, conseguentemente ne perdevano tutti i banchetti limitrofi. Per la piazzetta del Re de Bronz, la passione di Sara per i due pappagalli era diventata una vera sciagura.

 

La caldarrostaia non navigava in migliori acque, poiché i pappagalli iniziavano a lamentarsi della monotona dieta a base di castagne. La povera Sara era disperata, perché i sacchi di iuta che contenevano le castagne erano ormai vuoti e non sapeva più come sfamare né se stessa, né le proprie creature. “Se vuoi saper come ci chiamiamo”, dissero improvvisamente i due volatili, vedendo la caldarrostaia girare in tondo nella piccola stanza, colta da un'irrefrenabile isteria, “Noi siam Disgrazia e Spensieratezza. Se non ci nutrirai come hai fatto finora, apriremo la gabbia con i nostri artigli, sfonderemo i vetri della finestra con i nostri becchi e ce ne voleremo via”. Fu a quelle parole che Sara si accorse della miseria della sua casetta e della follia delle sue azioni. “Voi ve ne andrete, ma come dico io. Se mastro Tobia non vi vorrà indietro, allora vi scambierò per due sacchi di castagne e, con fortuna e dedizione, ritornerò alla mia vita”, pensò Sara tra sé.

 

Maestro Tobia non si fece ripetere due volte l’offerta e, in uno slancio di generosità, restituì a Sara metà della somma originariamente pattuita. “Son diventati vecchi, è passato del tempo, son stati mal nutriti…”, cercò di giustificarsi mastro Tobia con la caldarrostaia. In realtà non era passato neppure un anno, che nella vita ottuagenaria di un pappagallo è ben poca cosa, ma Sara non se ne curò.

 

Con una parte della somma intascata, la fanciulla riavviò il suo banchetto. Era di nuovo autunno e i bambini accorsero in piazza del Re de Bronz con l’entusiasmo di sempre. I commercianti tutt’intorno videro i propri affari rinvigorire. Mastro Tobia, congratulandosi con se stesso, perse di vista i due pappagalli. I quali, aperta la gabbia in cui erano rinchiusi con i propri artigli, se ne volaron via. “Poco importa, non li ho pagati che una frazione dell’oro che mi hanno fruttato. Di Disgrazia e Spensieratezza non ne ho più bisogno. Mi bastano il profumo delle caldarroste e il sorriso di Sara.”

 

Questo accadde tanto tempo fa ed io ne fui testimone. I dettagli di quel che non vidi, fu Sara a fornirmeli, ma le caldarroste dovetti pagargliele.

 

- Codice ATU -1 “The Frog King, or Iron Henry”.

Una principessa incontra una rana e, piuttosto riluttante, la bacia. Il ranocchio si trasforma in un bellissimo principe

 

Titolo, così come suggerito da ChatGpt 3.5, “Il Principe del Dinosauro e il Ruggito Comico nella Repubblica Democratica”.

 

Titolo, così come riadattato dal sottoscritto: “Il Principe Dinosauro e le ninfe d‘acqua”

 

C‘era, non molto tempo fa, una repubblica democratica tanto antica da aver istituzionalizzato i titoli nobiliari delle famiglie di più alto rango che per secoli si erano dedicate all‘attività politica. Non che un comune popolano non potesse votare o esprimersi liberamente, ma se si fosse fatto avanti nessuno gli avrebbe dato retta. Questa però è una favola e i nostri piccoli e grandi lettori non devono crucciarsi delle vicissitudini costituzionali di quel paese. Che era situato in un luogo incantevole, sulle rive di un lago scintillante, nel quale si specchiavano il sole, la luna, le stelle e, con la dovuta frequenza, anche le nubi.

 

Lungo le rive del lago, la principessa Isabella, nipote e cugina di un buon numero di parlamentari e magistrati di alto rango, passeggiava quotidianamente osservando le meraviglie della natura. Un giorno si imbattè in Giglio, una ninfea dai tratti singolari. “Chi ha parlato?”, iniziò a dire la principessa, che in quel momento si trovava tutta sola senza che anima viva possa esserle testimone. “Indovina indovinello sono io e non son quello”, continuò a ripetere Giglio, finché la Principessa non si accorse di lei. “Io son Giglio, la ninfea parlante, ne ho dette molte e fatte tante”. La Principessa, ch‘era d‘animo buono, non si innervosì di fronte alla pedanteria di Giglio. La quale pesava d‘esser spiritosa.

 

La Principessa si avvicinò alla ninfea, le accarezzò i petali e la riempì di complimenti. “Vuoi che ti racconti una storiella divertente?”, riprese Giglio il suo monologo. La Principessa, che era di buon cuore, ma anche curiosa, continuò ad accarezzare le foglie della ninfea. Ormai le era chiaro che Giglio avrebbe proseguito con quella sorta di monologo. “Ti sei mai domandata che fine abbia fatto il Principe Leonardo? O pensi che se lo sia sbranato un leopardo?”, chiese improvvisamente Giglio.

 

La Principessa, che aveva conosciuto il Principe Leonardo fin da piccola e l‘aveva spesso incontrato alle riunioni di partito, considerato che i genitori appartenevano alla stessa fazione politica, emise un sospiro. Temeva che, per quanto improbabile, il suggerimento di Giglio potesse corrispondere alla verità. “Eh! Ti sbagli! Ti sei spaventata, ma tutto si risolverà prima che l’asino ragli”. La Principessa iniziava ad essere irritata dalle rime della ninfa, ma sapeva che doveva essere gentile se voleva venir a capo di qualcosa. “Resta attenta alla mia favella, è così interessante la mia novella. A ruggire non è il Leopardo, ma il Principe Leonardo. Un suono così giocondo, da far ridere tutto il mondo. L’ha trasformato in un giullare per potersi vendicare. Son le ninfe birichine, arcinote e merchine. Or il povero principino è stato tramutato in un dinosauro”. La mancanza della rima finale suonò come un tuono che colpisce l’udito in una giornata serena.

 

La Principessa prese seriamente le parole di Giglio, ma si limitò a osservare la ninfea come inebetita. Soprattutto si domandava cosa avrebbe potuto combinare il Principe Leonardo per suscitare l’ira delle ninfe birichine. “Forse gli è stato sufficiente avvicinarvisi. Di questi tempi non è un vero torto l’origine delle dispute, piuttosto un’invidia, un’antipatia, un passo compiuto nel momento sbagliato”. Ne sapeva qualcosa, la Principessa, cresciuta tra alti magistrati e parlamentari dell’antica Repubblica Democratica. Rimuginando tra se e se, si accorse che la scomparsa del Principe Leonardo avrebbe potuto suscitare inutili sospetti tra i rappresentanti dei partiti. Nel caso peggiore avrebbe potuto acuire i contrasti al punto tale da far venire meno le larghe intese sulle quali si basava la stabilità delle istituzioni.

 

Come individuare un cucciolo di dinosauro, tra i tanti che in quel periodo dell’anno si aggiravano intorno alle sponde del lago, era però un punto ignoto. L’unico a poter chiarire quel mistero, prima che fosse troppo tardi, era il Mago Saggio. Del quale si ignorava il nome e il paese di origine, ma la cui sapienza era da tutti, o quasi tutti, presa in grande considerazione. Se non da qualche fine umorista, tra i pochi a osare a mettere in discussione talune trovate del Mago Saggio, in realtà del tutto prive di logica. La Principessa mise in tasca la ninfea e si avviò verso la dimora dello stregone. Giglio non parlava più in rima, ma avanzava le sue rimostranze per essere stata arruolata, contro la sua volontà, in un’impresa apparentemente senza soluzione.

 

La spelonca dell’uomo magico non era molto distante, e non era nemmeno una stamberga, bensì un’elegante casa in legno con vista su tutto il lago. “Benvenute, benvenute, vi stavo aspettando. Benvenuta Principessa e benvenuta a te, piccola Giglio. Non sono necessari poteri magici per comprendere che primo o poi qualcuno si sarebbe rivolto a me per venire a capo della scomparsa del Principe Leonardo. Ed una principessa non è meno di quanto più adatto”. L’uomo, vestito in un buffo mantello ricoperto di stelle e segni zodiacali, fece accomodare i suoi ospiti. “Ho appena sfornato una specialità culinaria, molto amata nelle Repubbliche del Nord. Si chiama Pizza Hawaii e abbina il sapore dolce dell’ananas con il più delicato prosciutto del nostro entroterra. Sono convinto che potrebbe aiutarci a risolvere l’impresa”.

 

La Principessa era al corrente dell’originalità del Mago Saggio. “Se ha la nomea di saggio, assecondiamolo ed assaggiamo questa torta. Si è guadagnato la fama di savio, non di uomo crudele, e pertanto non tenderà tranelli né a me, né a Giglio". La ninfea, che era stata gentilmente depositata in una bella ciotola piena d’acqua, non commentò, felice di non poter assaggiare la pizza Hawaii. “I dinosauri son ghiotti di ananas, ma sono vegetariani. Se uno dei loro cuccioli si avvicinerà alla pizza e vorrà provarlo, ciò significa che le sue qualità umane si sono risvegliate. Assaporandone anche un solo boccone, il dinosauro Leonardo ritornerà ad essere un Principe. Tu però dovrai rintracciarlo e conquistare il suo cuore con un bacio, anche se lo troverai tra gli acquitrini, tutto sporco e coperto di fango”.

 

Per la Principessa l’idea di avvicinare le labbra alla dura pelle di un piccolo dinosauro non era attraente, ma ormai si era convinta che questo fosse un compito da portare a termine. D’altra parte, fuorché presenziare alle cene di beneficenza organizzate dal partito, la Principessa trascorreva lunghe e noiose giornate lungo la riva del lago. “Sarebbe un diversivo”, e, con una sporta contenente una grossa fetta di pizza Hawaii, la Principessa si avviò alla ricerca. “Ma come farò a riconoscere il Principe Dinosauro? Non potrò baciare tutti quei cuccioli, sono tantissimi”, chiese la Principessa al saggio Mago prima di lasciare la sua spelonca. “Quelle ninfe che hanno compiuto la magia sono dispettose, ma dotate di un grande sense of humour. Sicuramente avranno aggiunto qualche buffo elemento alla loro trasformazione”.

 

La Principessa si convince che avrebbe dovuto portare pazienza e si avviò. Cammina cammina, la Principessa si decise che quel giorno avrebbe compiuto il giro del lago e, se fosse stata fortunata, avrebbe presto incontrato il Principe Dinosauro. Si sentiva la pancia piena della Pizza Hawaii offertale dal Mago Saggio e una passeggiata non potè che farle bene. Giunse presto alla panchina rossa che uno scultore amico di un presidente del Parlamento aveva concepito per festeggiare le avvenute elezioni. Vi si sedette e mise in bella mostra il trancio di Pizza Hawaii. Le si avvicinarono tanti cuccioli di dinosauro, ed anche qualche mamma di dinosauro, piuttosto guardinga e minacciosa.  Nessuno di loro era però più buffo di quanto un cucciolo di dinosauro potesse esserlo per natura. La Principessa tirò fuori dalla tasca anche Giglio, che si mise a cantare. “Se l’attesa ora ti pesa, con pazienza e diligenza, non cessare di aspettare, aguzza l’occhio e l’udito, il Principe Dinosauro verrà e il tuo compito sarà finito”.

 

La Principessa si rallegrò che Giglio parlasse ancora in rima, quelle assonanza le infondevano ottimismo. Era però giunto il tramonto, e la fetta di pizza Hawaii nessuno, tra i dinosauri, la voleva. Per la Principessa, ormai a digiuno da diverse ore, la vista di quel delizioso cibo costituiva un tormento, ma Giglio la sostenne. “Se la tua missione vorrai affrontare, ci sarà ben altro da mangiare”, e la Principessa si trattenne. L’autocontrollo della Principessa fu però premiato.

 

Tutto d’un tratto la nobile fanciulla udì uno strano rumore, a metà tra un ruggito e il buffo bofonchiare di un clown. Si voltò intorno, ma non vide nessuno, se non un piccolo esemplare di dinosauro, tutto sporco e coperto di fango come aveva previsto il mago. La Principessa osservò quel cucciolo, il quale le rispose spalancando la bocca ed emettendo di nuovo quello strano ruggito. La ragazza si mise a ridere e il piccolo dinosauro le si avvicinò, producendo ulteriormente quella buffa litania che solo il più abile dei comici avrebbe potuto concepire.

 

L’effetto fu tale che la Principessa si trovò subito di buon umore e, senza pensarci due volte, diede un braccio al Principe Dinosauro tutto coperto di fango. Il dinosauro si rotolò su se stesso, poi vide la fetta di pizza all’ananas. “Ne vuoi?”, chiese la Principessa. Quell’esserino sembrò dire “Sì, che delizia!”, ma di nuovo ruggì. Afferrata la pizza tra le mani, la Principessa la offrì al dinosauro, che in un solo istante mutò le proprie sembianze rivelando il Principe Leonardo. “Non ne sono stupita", disse la Principessa, che lo abbracciò di nuovo.

Quel trancio di pizza poteva essere sufficiente per un piccolo dinosauro, ma non per saziare l’appetito dei due giovani. I quali si misero in cammino verso la città. Alle ninfe birichine non rimase che allontanarsi per qualche tempo dalla Repubblica Democratica, sapendo bene che avrebbero rischiato una pena severa.

 

Come alla conclusione di ogni lieta novella, il Principe e la Principessa si conobbero meglio durante il percorso, in breve si innamorarono l’uno dell’altra e da lì a una settimana furono celebrate le nozze. Cui parteciparono anche il Mago Saggio, che donò alle cronache della Repubblica Democratica la ricetta della pizza Hawaii. Giglio celebrò l’evento con un intero poema in rima baciata. I dinosauri continuarono a brucare l'erba lungo le sponde del lago ed a me, testimone di quanto avvenne, rimase solo il ricordo di quel lieto evento.

Progetto Novello Calvino

Cari lettori, si apre con questa breve, e spero non tediosa, introduzione un ciclo di favole che segue la celeberrima classificazione di Aarne-Thompson-Uther. Di favole di tal categoria ne esistono ben duemilacinquecento differenti, senza alcuna apparente ridondanza. Vi è poi chi sostiene che la classificazione di cui sopra sia europeo centrica e poco attenta alle forme di vita non binarie. Le favole si sono però diffuse all’interno della civiltà umana nel lungo corso della sua evoluzione. Pertanto non me ne vogliano a male i pretoriani dell’ideologia più aggressiva del momento se non mi piego alle loro richieste e preferisco rivolgermi al mio pubblico in maniera universale. Tantopiù che, se dovrò dedicare ogni settimana a una novella forma di narrazione, mi ci vorranno quasi cinquant‘anni per completare il mio progetto. I che richiede anche un certo ottimismo in termini di aspettativa di vita. Secondo il calcolo attuale dovrei difatti riuscire a sopravvivere almeno fino al novantacinquesimo anno di età. Ed essere ancora lucido. Tra tanti racconti di orchi e streghe troverò pure una pozione di lunga vita che mi consenta di giungere al termine della singolare tenzone. Non me l‘ha ordinato un mago, un Re e tantomeno una principessa. È piuttosto un metodo per fuggire dal mondo incantato delle società di consulenza e ritornare a quel periodo della mia adolescenza, o gioventù, in cui potevo permettermi di dedicare la mia mente ad attività speculative quasi fine a se stesse. Il mio primo racconto con il mondo delle favole non fu però così casuale. Risale alla mia infanzia, quando avevo quattro anni e mia mamma si era messa ad acquistare in edicola una bella raccolta di favole, non tutte tradizionalissime, recitate principalmente dalla splendida voce di Paolo Poli. Seguirono le favole rese a disposizione dalla SIP, allora l‘unica società telefonica italiana, componendo uno specifico numero di telefono. Infine fu la volta di due volumi della BUR, la raccolta delle favole italiane ad opera di Italo Calvino. Al quale devo molto per essere stato in grado di destare in me cotanta attenzione. L‘ho riletto più volte nel corso della mia vita, anche recentemente, superati i quarant‘anni. Ora però i miei lettori si saranno già annoiati di fronte a tanto sfoggio di nostalgiche memorie. Un‘ultima nota però è importante. Nella composizione delle favole mi farò aiutare da Chat GPT, versione 3.5. Vi interagirò in inglese, ma per amor di Calvino - Italo, non il teologo - e della mia terra natale, sarà mia premura imbastire i racconti nella lingua di Dante.

 

Seregno, il 30 Ottobre 2023

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