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Progetto Novello Calvino

odice ATU-6, è la favola dell’uomo che vola.

Codice ATU-6, è la favola dell’uomo che vola. D’acchito penso al mito di Icaro, non ricordando altre celebri favole con tale tema. Forse Aladino sul tappeto volante, benché non riesca a contestualizzare. Secondo le informazioni raccolte da Chat GPT, l’eroe dovrebbe ricevere un potere sovrannaturale, quello del volo, e grazie a tal dono trovarsi in grado di concludere la sua quête. Lasciamo dunque spazio alla fantasia e iniziamo a volare sulle sue ali. A Chat GPT non ho chiesto altro. La favola, con il titolo da me designato, è dunque: “Le ali di marmo di messer Pierino”.

 

Non molto tempo fa, in una villa sulle colline toscane, viveva messer Pierino. Egli era un uomo di mezza età, mezza statura, ma di mezzi abbondanti. La sua dimora vantava un giardino di non so quante pertiche e dei campi, coltivati a vite, farro e orzo assai più ampi. L’acqua abbondava nella sua tenuta, tanto da avervi fatto realizzare una cisterna di marmo, dove potersi bagnare durante i mesi estivi. Quando giungeva l’inverno e un manto di neve copriva le colline, quello specchio d’acqua gelava, offrendo un semplice svago ai figli della servitù. Messer PIerino non amava il gelo e trascorreva intere giornate, durante i mesi più bui, a fianco di un enorme camino leggendo e rileggendo i volumi della sua biblioteca.

 

Talvolta preferiva concentrarsi sulle sole illustrazioni, poiché, nella solitudine di quelle stanze, la lettura ininterrotta gli dava a noia. Erano litografie e miniature tracciate da abili mani di artisti e artigiani. Molti di questi venivano dai paesi vicini ed erano al soldo della tipografia di messer Pierino. Altri erano invece del tutto sconosciuti al ricco possidente, perché avevano contribuito a volumi prodotti da stamperie di paesi lontani. Cittä e lande che messer Pierino conosceva solo per i differenti stampi o filigrane sulla carta dei propri preziosi libercoli.

 

Talvolta chiudeva gli occhi e, sulla base di un solo dettaglio di quegli emblemi, una corona o un petalo di rosa, sognava di volare fino in quei luoghi, superando le colline e le montagne come se fosse un uccello. Tale esercizio si ripeteva con tale assiduità, che un giorno messer Pierino chiese a Lancillotto Scultore di realizzargli due ali di marmo.

 

“Vossignoria è sicuro di non voler altro? Posso scolpire per lei dei finissimi angeli. Della mia maestria, mi perdoni l’immodestia, se ne parla con lode persino in Vaticano”, propose ossequioso l’artista. “No, non me ne voglia. Io presto orecchi solo alla parlata di un onesto villico senese. Il Vaticano l’è troppo lontano”, rispose messer Pierino con quanto più garbo gli riuscisse di fiatare. Poco aduso alla compagnia di mondo, se non a quanto necessario per condurre i suoi affari, il linguaggio, e i toni, di quel gentiluomo potevano difatti suonare stonati. Non era però sempre burbero. Quando passeggiava tra i suoi campi, osservando i fiori e gli insetti, quando nuotava nell’enorme vasca d’estate, quando leggeva e quando sognava, messer Pierino era un uomo amabile.

 

L’avrebbero tutti definito persino piacevole, se solo avessero avuto occasione di condividere con lui quelle esperienze. Erano però momenti individuali della vita del possidente, che così veniva descritto come un selvatico. Lancillotto Scultore preparò le ali, così come gli era stato detto.

 

Erano un paio di splendide ali, larghe ciascuno un braccio e mezzo e alte tanto quanto il corpo di un uomo. Le venature del marmo risaltavano la forma delle piume. Il materiale era poi elaborato per dotare di leggerezza l’impressione della vista di quella scultura. La quale si reggeva su un piedistallo, anch’esso di marmo, ma rosso e non bianco, come lo erano le ali. A ulteriore sostegno di queste ultime, sopra il capitello, era stata preparata un’intelaiatura in legno, che nell’intenzione dell’artigiano sarebbe dovuta risultare appena percettibile agli occhi di un ideale spettatore.

 

Messer Pierino ne fu soddisfatto e gratificò Lancillotto Scultore con una moneta d’oro. “Messer Pierino, vi ringrazio per la vostra generosità, ma una moneta d’oro è tanto quanto mi è costato il materiale per la scultura. Forse anche il companatico consumato mentre mi dedicato a prepararla, apposta per voi. Ma della mia opera, della mia creatività, non tenete altro conto?”, chiese l’artista, senza mostrare l’irritazione che covava interiormente. “Se il materiale ti è costato tanto, o forse meno, di cosa ti lamenti? L’idea è stata mia e tu l’hai eseguita. La prossima volta mi rivolgerò ad altri”, rispose secco Messer Pierino.

 

Lancillotto Scultore, senza proferire una parola, se ne andò borbottando qualche verbo non intellegibile alle orecchie del proprietario terriero. Costui, noncurante della reazione dello scultore, si rimise ad ammirare le ali di marmo che ora decoravano il giardino. Lancillotto Scultore quella sera si fermò all’osteria prima di rientrare nella sua casa, che era anche la sua bottega. Brindò con un calice di buon vino al compimento e alla consegna di quel che considerava un capolavoro.

 

L’oste fu generoso nel riempirgli il bicchiere: “Che per quel che paga il tuo cliente, dovresti digiunare un anno intero”, commentò ridendo il proprietario della locanda. L’artista sorrise e si guardò intorno domandandosi se quella sera vi sarebbe stata una buona compagnia con cui tener conversazione. Dei suoi soliti compari non vi era traccia, ma uno sconosciuto, necessariamente un forestiero, si era accomodato alla tavola di fianco.

 

Lancillotto Scultore alzò il boccale, l’anonimo avventore ricambiò il saluto. “Siete nuovo della contrada?”, fece l’artista. L’altro annuì con un cenno del capo. “E vi fermate a lungo?”, insistette il maestro scalpellino. “Abbastanza da svolgere i miei affari”, rispose il forestiero, senza dar l’idea di essere scocciato, ma neppure divertito. “E che genere di arte è la vostra?”, insistette Lancillotto, il quale stava per diventare inopportuno. “È un’arte arcana”, ribattè lo sconosciuto senza scomporsi, “Della vostra stessa specie, ma le mie opere hanno il dono di animarsi”.

 

Lancillotto Scultore non proferì parola. Si poteva dire stupito, ma non del tutto incredulo o meravigliato. Aveva difatti sentito raccontare, quando era ancora un apprendista, che i greci antichi avevano perfezionato al punto  la scultura, da consentire al marmo di muoversi e persino fuggire dal proprio basamento. L’artista rimase silenzioso un istante, poi riprese a tormentare l’involontario amico: “Vi credo. Se è vero quel che dite, lasciate che vi offra il pane e il companatico. Se questa notte non avete di meglio, alloggerete nella mia bottega”.

 

Lo straniero fissò negli occhi Lancillotto e produsse un ghigno sul proprio volto. Non aggiunse altro, ma sembrò voler accettare la generosità del compagno di gilda. Il giorno seguente lo sconosciuto compì un’abbondante colazione in compagnia di Lancillotto, poi si fece indicare la via per la magione di Messer Pierino. “Vedrete, mio pregiatissimo collega, sarete ricompensato per l’alloggio che mi avete offerto.”

 

Il viandante avvolse la propria figura in un mantello e partì alla volta della casa padronale. Messer Pierino lo ricevette nella propria biblioteca. Quel giorno era brutto tempo ed era l’ideale per gettare gli occhi sugli antichi incunaboli del maniero. “E cosa proponete, messer artista?”, chiese perentorio il signore della casa, “Non desidero altro che di accontentarvi. A me basta che la mia arte sia apprezzata, e celebrata”.

 

Perino, cui non pareva vero d’ottenere un tal servigio al solo costo del vitto e dell’alloggio, così come era sempre stato nei suoi desideri. Accordò al viandante di trattenersi per un mese intero, al termine del quale l’artista avrebbe dovuto mostrare il proprio valore. Per meglio instradarlo sui propri gusti, Messer Pierino mostrò al forestiero la coppia d’ali consegnata di recente da Lancillotto Scultore. “Queste mi piacciono assai. Se darete forma a un concetto migliore, potrete desinare al mio desco e riposare sotto il mio tetto finquanto vi compiacerà. Purché, s’intende, dedichiate le vostre giornate all’opera e non all’ozio”.

 

Lo straniero non aveva però l’aspetto di un uomo pigro e si limitò a chiedere del materiale sul quale poter applicare la pressione dei propri strumenti. Del marmo non ve n’era, lo si sarebbe dovuto ordinare. Si accontentò allora di legno e di cera. Messer Pierino aveva in quei giorni altro per la testa, essendosi appassionato a un romanzo di un autore spagnolo del siglo de oro. Benché burbero e assai avaro, il padrone di casa non era una persona diffidente e lasciò lo sconosciuto pastrugnare con spatole, pennelli e scalpelli, totalmente indisturbato per l’intero ciclo lunare.

 

Giacché a Messer Pierino, che era un originale, non piaceva il computo del tempo che divideva l’anno in dodici frazioni. Quando la luna fu di nuovo calante, il latifondiero chiamò a sé il forestiero, che per tutto quel tempo aveva taciuto il proprio nome. Questi, avvolto nel mantello con il quale era giunto alla magione, accompagnò il possidente in una parte dello scantinato e mostrò orgoglioso la propria creatura. Messer Pierino ne fu affascinato. Lo scultore non si era limitato a riprodurre fedelmente un paio d’ali che, per finezza delle piume e armonia delle proporzioni, sarebbero ben calzate a un Arcangelo.

 

Le aveva bensì indossate alla figura, a grandezza naturale, di Messer Pierino stesso. Costui ne fu compiaciuto al punto tale da avvicinare la mano alla borsa di monete che teneva sempre con sé. Poi pensò a quanto pattuito. “Se mi mostro ora generoso, chissà cosa vorrà in futuro”, e si trattenne. “Se vorrete rimanere, sarete il benvenuto”, disse il possidente. “Per le vostre prossime opere ordinerò del marmo”, soggiunse, reputando che tal gesto fosse sufficiente a mostrare la propria gratitudine. “Ora però dobbiamo pensare a dove collocare la statua. Vi è un platano nel mio giardino. Le fornirò l’ombra necessaria per proteggere la cera dai raggi del sole”, cogitò ad alta voce il padrone di casa. “Non sarà necessario”, rispose lo sconosciuto, “Poiché io sono artista anche nelle scienze occulte e tale cera possiede il dono di non sciogliersi al sole”.

 

Messer Pierino fissò il forestiero con irritazione. “Ma che burla è mai questa? Parlate sul serio? E se tale è la vostra presunzione, siete anche capace di dar vita alle vostre opere? Mi è sembrato di capire che già abbiate compiuto una tale vanteria”. Lo sconosciuto confermò di possedere anche tale abilità e aggiunse. “Perché non indossate voi stesso le ali di cui ho dotato la vostra effige? Esse prenderanno vita e voi potrete attribuirmi il merito di saper volare”. Messer Pierino scoppiò in una fragorosa risata, ma non voleva prendere a male parole quell’uomo che, dopotutto, si era mostrato un valido scalpellino.

 

“Essia, saliamo in giardino e facciamo tale prova. Vi avverto però che, se farò la figura dell’allocco, dovrete rimanere mio ospite fino a quando il fluido vitale vi consentirà di impugnare uno scalpello”. L’artista sconosciuto acconsentì e i due portarono la scultura, che era in realtà piuttosto leggera, fino ai bordi della piscina. Confrontata all’opera di Lancillotto Scultore, produceva ben altro effetto. Lo sconosciuto staccò le ali dal busto e le addossò sulle spalle di Messer Pierino. “Hoc! Hoc! Hoc!”, disse lo straniero battendo le mani.

 

Il possidente sgranò gli occhi e si sentì librare nel cielo. Il suo risentimento verso l’anonimo scultore si placò subito e, ormai certo che non gli avesse mentito, si diresse verso il sole. “Quel che a Icaro non era riuscito, sarà ragione della mia fama”, pensò Messer Pierino mentre la sagoma della sua casa si faceva sempre più piccola.

 

Lo straniero non era stato però del tutto onesto e, sulle orme del mito greco, le ali si sciolsero. Messer Pierino precipitò nel vuoto, di nuovo incredulo e questa volta decisamente adirato. Una volta raggiunto il suolo, la sua testa, seguita da tutto il corpo, sprofondò nel suolo rilasciando nell’aria un fragoroso boato. Il possidente si ritrovò negli inferi, dove lo attese un demonio per mostrargli il girone degli avari.

 

Lo sconosciuto non vi diede molto peso e, con un nuovo incantesimo, animò il rimanente della propria scultura. La quale era un ritratto tanto fedele del defunto possidente, da non destare alcun sospetto. Né nei fittavoli, che si ritrovarono il giorno stesso sotto un contratto più conveniente, né nella servitù e nel resto degli abitanti del paese. Ai quali il novello Messer Pierino annunciò che avrebbero potuto attingere liberamente alle provvigioni della propria ricca cantina.

 

Solo Lancillotto Scultore, che, per mezzo di un paggio, si vide ripagare con oro sonante tutte le fatiche arretrate, coltivò qualche dubbio sul repentino cambiamento. Egli volle recarsi alla magione e parlare a quattr’occhi con colui che sosteneva di esser Messer Pierino. L’artista incontrò tuttavia lo sconosciuto viandante. “Messer Pierino ha fatto voto di povertà e si è avviato sul cammino di Santiago. Mi ha lasciato per voi questa pergamena, con la quale vi affida tutte le sue proprietà”, disse il forestiero con il tono di colui che vuol sgomberare la scena celermente.

 

“Mi avete promesso che per l’ospitalità sarei stato ricompensato”, rispose sarcastico Lancillotto Scultore. Il quale si affrettò a entrare in possesso dell’imponente maniero.

 

A me, che quel giorno era andato a Firenze, però nulla mi diedero.

Codice ATU-5 è la favola di Cenerentola.

Codice ATU-5 è la favola di Cenerentola. Deluso dai tentativi precedenti, provo comunque a chiedere a chat GPT il suggerimento per un titolo e mi ritrovo con il criptico “Qilant, the Moonlit Transformation”. Qilant è una danza tradizionale degli Inuit, popolo a me caro. Essendomi però più cara la salute mentale dei miei sette lettori, nonché la comprensibilità del contesto, il titolo da me scelto è invece: “La cavigliera ortopedica”, ovvero “La Cenerentola nel campus”. Della cavigliera ortopedica nel racconto non c’è traccia, per cui rimane l’opzione “La Cenerentola nel campus”.

 

Non molto tempo fa, nel campus di una prestigiosa università, viveva una giovane impiegata amministrativa che aveva trovato un appartamento in condivisione con due ricercatrici. Le quali, in verità, dovevano ancora concludere il dottorato.

 

La ragazza, che si chiamava Carmela, veniva soprannominata Cenerentola. Un po’ perché se ne stava spesso in disparte dalla vita sociale dell’accademia, un po’ perché non amava spendere una buona parte delle sue già magre entrate in trucchi e vestiti alla moda. Quelli indossati dalle sue coinquiline, non duravano poi più che poche settimane. In parte per noia, in parte perché ne avevano ben scarsa cura. I gusti poi cambiavano in ogni momento, tanto quanto la direzione delle posizioni politiche cui erano costantemente sottoposti i frequentatori dell’ateneo, indipendentemente dal proprio ruolo.

 

Alla nostra Cenerentola non rimaneva che dedicarsi frequentemente alle pulizie domestiche, ripagata dalle coinquiline, Jessica e Jennifer, con qualche sconto sulle spese mensili. Che erano comunque a carico di Cenerentola, dal momento che il contratto d’affitto era stato sottoscritto dalla madre delle ragazze, una nota docente di scienze politiche, e la nostra Cenerentola si trovava in subaffitto. Calcolato come metà del costo dell’intero appartamento, con l’aggiunta dell’intera quota di corrente, riscaldamento, custodia e telefonia.

 

Cenerentola non si lamentava mai, a lei bastava uno spazio comodo nel quale riposarsi la sera, dopo una lunga giornata in ufficio nel tentativo di accomodare le richieste degli studenti, dei professori e dei suoi responsabili. Una parte dei quali non era meno capricciosa di quanto non si dimostrassero gli altri personaggi che si aggiravano per il campus. Pochi di loro avevano difatti ottenuto la propria posizione se non per l’adulazione costante di questo o quel direttore di dipartimento. Il che, riconosceva Cenerentola, se portato avanti con costanza, tale forma di captatio benevolentiae, richiede un certo impegno e bisogna accettarne il merito.

 

La sera poi, prima di potersi coricare nella propria cameretta, Cenerentola doveva pulire per bene l’appartamento. Tale era infatti il suo incarico, previsto anche nel contratto di subaffitto. L’impegno poteva talvolta essere faticoso, allorché Jennifer e Jessica erano piuttosto critiche, specie se di humor nere dopo una delusione sentimentale o per una discussione poco piacevole all'interno di uno dei molteplici club che frequentavano. Fortunatamente, appartenendo le due a una minoranza etnica favorita dalle regole del campus ed essendo nota la loro parentela con una celebre accademica di quell’università, sarebbe stato piuttosto insolito un rifiuto della loro tesi di dottorato.

 

Il che lasciava a Cenerentola il respiro necessario per tollerare le prepotenze delle due sorelle. Si diceva fossero persino gemelle, ma tanto particolare, e buffo, era il loro volto, che piuttosto di una creazione in serie, Jessica e Jennifer davano l’idea di due esemplari veramente unici. Jessica, che tra le due si reputava la più intelligente, continuava a ripetere che una volta ottenuta una cattedra avrebbe impiegato Cenerentola per tenerle pulito l’ufficio. Jennifer, la più intraprendente, si immaginava invece partner di una multinazionale della consulenza e prospettava a Cenerentola l’idea di diventare sua assistente.

 

Cenerentola invece ignorava i pensieri delle coinquiline e ricordava le giornate della sua gioventù, quando trascorreva il pomeriggio nel parco zoologico cittadino in compagnia dei genitori. Era stata proprio per la presenza dello zoo che Cenerentola aveva inoltrato il curriculum a quel campus, il quale teneva, in una recinzione del parco a lato degli alloggi degli studenti, un nutrito gruppo di simpatici animali. Cerbiatti, uccelli di varie specie, caprette e un ippopotamo, storica mascotte del campo. Quel luogo era la gioia di tutti i frequentatori del campus, almeno quelli che mantenevano vive le emozioni innate alla natura umana.

 

Tra costoro non vi erano Jennifer e Jessica, che semmai erano state allontanate più volte dal recinto degli animali. Vi ci si avvicinavano solo di mattina presto, al ritorno dalle feste. In preda agli effluvi dell’alcohol, le due sorelle si divertivano a esercitare la propria arroganza anche su quelle creature innocenti. Un giorno assistette alla scena anche Cenerentola, che invece si era alzata di buon’ora per poter salutare i propri amici del regno animale. Che poi erano i suoi migliori e unici amici.

 

La ragazza, che mal tollerava la prepotenza ed era paziente solo quando si trovava lei stessa a subir l’ingiustizia, si nascose dietro un cespuglio. Non riuscendo a immaginare nulla di meglio, iniziò a produrre dei suoni agghiaccianti alterando la voce per quanto possibile. Si rese poi conto che intorno a lei si trovavano delle pigne e, senza pensarci su due volte, le lanciò in direzione di Jessica e di Jennifer. Le eredi della celebre accademica, incapaci di reggersi in piedi a causa dei bagordi notturni, caddero su se stesse scoppiando in una fragorosa risata.

 

Quando altre pige le raggiunsero, insieme agli ululati di Cenerentola, iniziarono però ad avere paura e, gattonando e saltellando, si mossero in direzione dell’alloggio. Cenerentola le osservò battersi in ritirata, quando sentì una mano inumidirsi. Voltatasi di scatto, si rese conto che uno dei cerbiatti era riuscito a saltare la recinzione.

 

“Ma che carino che sei. Hai visto? Sono scappate via quelle streghette. Per un po’ non vi tormenteranno più”. Cenerentola si mosse in direzione dell’ufficio. Non voleva tornare nell’appartamento proprio ora. Le due sorelle, anche senza avere sospetti su di lei, sarebbero state di umore nero e l’avrebbero maltrattata. Il cerbiatto però sembrava volerla seguire. “Cosa fai, mi segui? Il tuo posto è nel recinto. Andiamo, ognuno deve stare nella propria gabbia”, rispose Cenerentola allo sguardo del cerbiatto, mordendosi la lingua per essersi fatta sfuggire una frase tanto malinconica. Il cerbiatto però non si mosse, continuò a osservarla e infine le disse: “Non essere triste. La tua vita cambierà presto in meglio. Non vuoi stare un po’ in nostra compagnia?”, indicando con il musetto il recinto degli animali.

Cenerentola capì che dovesse trattarsi di un cerbiatto incantato, per poter parlare in maniera tanto chiara e distinta. Convinta che si possa solo ricevere del bene dal prestare attenzione alle creature fatate, la giovane donna lo seguì fin nel recinto degli animali. Fu presentata all’intera combriccola, anche all’ippopotamo, che era tenuto in grande considerazione da tutto il gruppo. “Non sei dunque una stella solo dell’università, ma anche un principe nel tuo piccolo pezzo di terra”, commentò Cenerentola. “Io sono il re delle acque e delle terre. Vengo da molto lontano. Tu oggi ti sei premurata per uno dei miei fratelli, si fa per dire, e  verrai ricompensata. Riceverai delle visite durante la giornata. Non aver timore e segui i loro consigli”, disse l’ippopotamo con tono solenne.

 

Cenerentola non aggiunse altro, si congedò con un inchino, immaginando che così ci si dovesse comportare di fronte a un sovrano, e seguendo la sua decisione iniziale, se ne andò direttamente in ufficio. Era ancora presto quando si sistemò sulla scrivania e questo le diede il tempo necessario per far bollire un caffè e prepararsi una semplice colazione con dei biscotti e della frutta secca che teneva sempre in un cassetto.

 

Jennifer e Jessica invece, appena giunte nell'appartamento, si appisolarono all’istante e Cenerentola le ritrovò la sera stessa, di rientro dall’ufficio, che ancora russavano sonoramente. “Come potranno mai costoro trovarsi un principe azzurro”, pensò Cenerentola mentre cerca a di riportare un po’ di ordine nell’appartamento.

 

Non appena la ragazza ebbe completato le pulizie domestiche, suonò il campanello. Cenerentola si affrettò ad aprire, convinta fosse uno dei vicini di casa che spesso si lamentava del baccano provocato dalle coinquiline. Era invece il fattorino di una delle tante pizzerie del campus. “Ma io non ho ordinato nulla!”, disse stupita Cenerentola, “Né le mie coinquiline erano in condizione di farlo”, pensò la giovane donna. “È un omaggio speciale per la signorina, mi faccia controllare, Cenerentola”, rispose il fattorino. La ragazza fu ancor più stupita, poiché con quel nomignolo la appellavano solo Jessica e Jennifer quando volevano risultare particolarmente sgradevoli. “E quale sarebbe questo omaggio?”, rispose la giovane donna, sforzando un sorriso di cortesia. “Ecco la troverò qui dentro”, e il fattorino consegnò una scatoletta di plastica, del genere utilizzato per conservare i panini.

 

Cenerentola prese il pacchetto e lo aprì di fronte al ragazzo. Contenva una sola, singola noce. Quando la prese per osservarla meglio, il guscio sembrò emettere dei riflessi dorati. “Serbi con cura il suo regalo”, si raccomandò il fattorino, il quale salutò portando la mano sul berretto e accennando a un discreto inchino. A Cenerentola venne da sorridere e ricollegò quell’evento alle parole profetiche annunciate dagli animaletti del recinto. Prese la noce, la mise con cura in una tasca del tailleur, poi buttò il contenitore nella pattumiera. Non voleva che le due sorelle, al risveglio, notassero alcunché di strano.

 

Jennifer e Jessica continuavano però a dormire sonoramente, come se, più che per l’effetto dell’alcohol, stessero subendo un incantesimo. Cenerentola ne approfittò per sedersi su una poltroncina, in genere occupata da una delle due, e riprendere la lettura di uno dei suoi romanzi preferiti. La giovane donna amava i miti dell’antichità classica, trovava vi fosse un fondo di verità assoluta, universale, nella sapienza degli antichi. Stava immaginando con la fantasia di trovarsi in un universo popolato da fauni dispettosi e ninfe innocenti, quando sentì battere il vento alla finestra della sua camera.

 

Si alzò per controllare le serramenta, ma quando avvicinò il volto alla finestra scorse una figura umana che si stava arrabattando con vernici e pennelli. “Mi perdoni, signora Cenerentola”, gridò l’imbianchino per farsi sentire attraverso i vetri, “finiremo il lavoro entro notte”. La giovane donna non sapeva che dire. “Di nuovo quel nomignolo, che sia un altro dei visitatori annunciati dallo zoo di facoltà”, pensò l’impiegata e, fidandosi del proprio intuito, aprì la finestra. “Ah, grazie. Avrei rischiato di sgolarmi. Grazie per la pazienze e la comprensione. A lei un gradito omaggio”, disse l’imbianchino porgendole un gemello di piccole dimensioni.

 

Cenerentola ringraziò, questa volta con un sorriso più naturale, chiuse di nuovo la finestra e agitò il bastoncino in aria. Dal pennello sembrò uscire una scia dorata, simile a quella emessa dalla noce. Nel mentre le due coinquiline continuarono a dormire. Il loro russare si faceva però più assordante e Cenerentola si dovette ritirare nella propria camera, per riuscire a proseguire con la lettura.

 

Nonostante si fosse svegliata di prima mattina, non si sentiva affatto stanca ed ora attendeva la terza visita come un bambino che aspetta l’arrivo di Babbo Natale. Nella cameretta si trovava ancora il segno di un vecchio camino, murato durante i lavori di ristrutturazione avvenuti ormai decenni addietro. La bianca parete diede l’idea di liquefarsi e, dove price c’era dello stucco, ora si trovava un fuoco scoppiettante. Cenerentola rise di gusto, trovando così divertente l’iniziativa degli animali del recinto. “Non possono essere che loro. Chi altri possiede qualità magiche all’interno del campus?”, pensò la giovane donna, che si avvicinò al caminetto per goderne il tepore.

 

Tra i fuochi vide agitarsi un berrettino rosso, al suono ritmato di una campanella. Il copricapo era indossato da uno gnomo, che dalle fiamme si catapultò nelle mani di Cenerentola. “Buongiorno principessa”, disse quella piccola creatura, “è ora che ti mostri i portenti che ti sono stati regalati oggi”. L’impiegata amministrativa lasciò fare, pose delicatamente lo gnomo sul pavimento e gli porse la noce e il pennello. Lo gnomo afferrò il pennello nelle proprie mani e disegnò dei cerchi in aria. Cenerentola rideva di gusto nel seguire le evoluzioni di quella strana creatura. Il piccolo essere la osservava a propria volta e, quando il viso della giovane donna divenne particolarmente radioso, intrecciò il movimento del pennello con la luce che proveniva dal suo sguardo.

 

La stanza si riempì di un balenio abbagliante e Cenerentola si ritrovò a indossare un elegantissimo abito blue, decorato con scaglie di oro e d'argento. I suoi capelli erano raccolti in trecce, a loro volta adornate con pietre preziose, di differente grandezza e tonalità. Le sue scarpette anatomiche, con le quali andava ovunque, erano scomparse per far spazio a due calzature dal tacco alto, simili a quelle che scorgeva nei cataloghi di alta moda di Jessica e Jennifer.

 

 

Cenerentola si guardò allo specchio e osservava il volto di una principessa dei rotocalchi, di quel genere di bellezza femminile come non se ne vedevano da decenni. La carnagione chiarissima ben si accostava ai capelli bruni. Gli occhi verdi sembravano due smeraldi. “Ma che magia è questa. Perché mi trovo agghindata in tal modo?”, chiese Cenerentola, che ben poco teneva alla propria bellezza e neppure in quella circostanza si era fatta vincere dalla vanità. “Non c’è tempo per discutere. Prendi la noce, Cenerentola”. La ragazza fu questa volta contrariata e fece una smorfia. Alcuni ornamenti tra i capelli scomparvero. Il suo viso si illuminò di nuovo con un sorriso, e i preziosi ricomparvero, anche più belli di prima.

 

Allora Cenerentola consegnò la noce allo gnomo. Costui la prese in mano, la addentrò come per provarne la consistenza, poi aprì la finestra senza neppure toccarlo - un colpo di magia - e gettò la noce nel prato che circondava l’edificio. La piccola creatura agitò di nuovo il pennello e la noce si trasformò in un’elegante vettura sportiva, dalla carrozzeria bianca come una perla e dagli interni ricoperti con il più delicato dei pellami. “Vieni”, disse lo gnomo alla giovane donna, invitandola ad affacciarsi alla finestra.

 

Costei si fidò dell’esserino misterioso e si lanciò nella vettura senza esitare. “Dove si va?”, chiese sorridente la ragazza al suo nuovo compagno di avventure. “A una villa non lontano da qui. Quella del Gran Galà dei Benefattori”. Cenerentola impallidì. Ogni anno si teneva quel ricevimento, riservato ai finanziatori dell’università. Erano personaggi molto importanti, capitani d’industria e finanzieri tanto ricchi che era difficile stimarne il patrimonio.

 

Cenerentola però volle fidarsi e si presentò senza esitare all’ingresso della villa. Lo gnomo si nascose nella sua pochette. A Cenerentola bastò un sorriso, affinché le guardie all’ingresso le concessero di entrare. Non le chiesero neppure il nome, come incantati dalla sua aura. La ragazza si volse tutto intorno. Le piacevano le feste, amava parlare con le persone, ma mai si era trovata in un ambiente così elegante.

 

La guidò lo gnomo con la sua vocina. Quando l’orchestra si mise ad accennare un walzer, giacché al Gran Galà dei Benefattori era ammessa solo la musica classica, un uomo giovane e gentile le propose un ballo. La ragazza aveva seguito da giovane diversi corsi e, forse con l’aiuto della magia dello gnomo, piroettò con eleganza e savoir-faire. Ballò e si intrattenne con il suo cavaliere per tutta la sera, fin quando, assai stanca, non chiese di sedersi.

 

Il suo galante accompagnatore la lasciò solo per tempo, in cerca di due calici di spumante. Cenerentola, durante l’attesa, si mise casualmente a origliare il discorso di due finanziatori con una donna voltata di spalle. Si ipotizzava di chiudere un intero dipartimento dell’università, per lasciar spazio a nuove cattedre che sarebbero state assegnate sulla base di intrighi di potere e di equilibri ben lontani dai fini della ricerca scientifica o della formazione degli studenti.

 

Cenerentola, che aveva a cuore la missione dell’università, si scurì in volto al punto tale da veder scomparire tutti i ninnoli che ne decoravano la figura. Quella donna era poi l’accademica madre di Jessica e Jennifer. Cenerentola non voleva mostrarsi in tale stato all’anonimo corteggiatore e tantomeno farsi riconoscere dalla celebre cattedratica. Lo gnomo l’aiutò a dileguarsi, ma man mano che passava il tempo Cenerentola era sempre più triste. Anche il suo bolide ritornò ad essere una noce.

 

L’impiegata raggiunse la casa a piedi nudi, allorché per correre più veloce si era tolte le scarpe dal tacco alto. Una di queste le era persino scappata di mano all’interno della villa. In quell’avventurosa ritirata, Cenerentola rientrò nella propria camera dalla finestra. Lo gnomo non aveva perso le proprie virtù e l’aiutò ad arrampicarsi. Esausta Cenerentola si buttò a letto addormentandosi all’istante.

 

Il giorno seguente la giovane donna si trovò a condividere la colazione con le due dottorande. Le quali avevano sonoramente ronfato tutta la notte senza accorgersi di nulla. Per Cenerentola era sempre stato un incomodo trovarsi a tavola con le due sorelle. Le circostanze richiedevano che lei inghiottisse i bocconi il più in fretta possibile, mentre le altre due si facevano servire con la tracotanza di un pascià.

 

In quell’occasione Jessica e Jennifer non distoglievano gli occhi dal telefonino. Stava facendo il giro del campus il video di una donna bellissima ed elegante che, la sera precedente, si era intrattenuta con il più ambito scapolo di tutta la nazione. Cenerentola arrossì quando si riconobbe nel filmato, ma non disse nulla. Le ragazze, che avevano notato la sua reazione, iniziarono a schernirla. “Cosa pensi, che un tale fusto potrebbe mai degnarsi di danzare con te?”, disse Jennifer. “Un abito del genere non sapresti neppure come infilartelo”, aggiunse Jessica. Le due non avevano ancora terminato il discorso che suonò il campanello. Cenerentola si affrettò ad aprire, dal momento in cui le due sorelle non compivano il minimo sforzo in presenza della coinquilina.

 

Entrò in fretta e furia la madre delle ragazze. Anche lei aveva osservato il video e si era accorta che l’affascinante sconosciuta si trovava seduta in maniera tale da poter origliare i suoi complotti. In un primo momento non si curò di Cenerentola, ma con la coda dell’occhio la vide innervosirsi. “Perché quella reazione. Forse ne sai qualcosa? Ma certo, che somiglianza!”. L’accademica non aveva compiuto una brillante carriera solo per merito, ma era pur dotata di buone doti analitiche. “Jessica, Jennifer, prendetela. Io farò un giro nella sua stanza”, disse arcigna la professoressa.

 

Le figlie ubbedirono, più per il gusto di essere le aguzzine della loro conoscente che per aver intuito cosa stesse accadendo. Mentre Cenerentola si trovava ormai in balia delle arpie, legata a una sedia con il filo di una decorazione natalizia, la celebre docente frugò in lungo e in largo per la stanza dell’impiegata. Infine le si parò di fronte, agitando trionfante la scarpa che Cenerentola aveva indossato la sera prima. “Non so come tu abbia fatto, ma se questa calzerà il tuo piede, avrò la certezza che tu sei quella sconosciuta”, urlò minacciosa la professoressa, in uno stato al contempo d’estasi e di ira.

 

L’impiegata amministrativa si guardò intorno, comprendendo che non avrebbe potuto ricevere alcuna forma di aiuto. Chiuse gli occhi e pensò intensamente allo gnomo e agli animali della recinzione. Si udirono altri passi avvicinarsi alla casa. Non erano però quelli di un esserino fatato, appartenevano bensì all’affluente e giovane benefattore. Quest’ultimo non si era dato pace all’improvvisa scomparsa della sua principessa e, seguite le tracce lasciate sul terreno durante la fuga, era riuscito a raggiungere l’abitazione di Cenerentola.

 

L’accademica cercò di giustificarsi, ma il suo comportamento era stato tale da avvallare la testimonianza della ragazza. Oltretutto il discorso era stato anche registrato nel video realizzato per riprendere la bella e misteriosa sconosciuta.

 

Con l’ausilio di un esperto audio, l’intero complotto fu portato alla luce. Cenerentola felice di essere stata liberata, rise di nuovo e si ritrovò a essere la splendida principessa della sera precedente. Come per istinto la giovane donna saltò nelle braccia del suo liberatore, che non a caso si chiamava Salvatore. Costui la chiese in sposa su due piedi, e le nozze si convolarono già la domenica seguente.

 

Quanto all’accademica, il suo complotto fu confermato proprio dall’analisi del video girata per riprendere la bella Cenerentola. Mentre Salvatore e Carmela pronunciavano il fatidico sì, la perfida accademica lasciava il campus, in compagnia di Jessica e di Jennifer. Per costoro, incapaci di ricostruirsi una carriera, non rimase che adattarsi al primo impiego che trovarono, in un’agenzia di pulizie. Terminarono così il resto dei propri giorni a essere maltrattate al pari di quanto loro avevano fatto con la coinquilina.

 

I due sposini invece furono la coppia più celebrata dell’anno, vissero in prosperità per il resto dei loro giorni e non mancarono mai di porre visita agli animaletti dello zoo universitario.

 

A me invece, che delle simpatiche bestiole sono il guardiano, non dettero mai niente.

 

Codice ATU-4, “The fisherman and his wife”, ovvero il pescatore e la moglie

Codice ATU-4, la storia è conosciuta come “The fisherman and his wife”, ovvero il pescatore e la moglie. Un pescatore cattura un pesce fatato che gli permette di esaudire tutti i propri desideri. La moglie però non si accontenta né di potere né di ricchezza e la sua avidità porta al disastro. Non sono riuscito a forzare Chat GPT 3.5 a rendere la trama non politicamente corretta. Sono riuscito solo a ricavare, per il titolo: “Patriotic waves: a fisherman’s allegiance”, dove il protagonista è un leale sostenitore di Donald Trump. Ho preferito sceglier per conto mio, con il titolo: “Antonio e il pesce fatato”.

Non molto tempo fa, in una delle tante cittadine dell’Alta Brianza, viveva, in un casolare ristrutturato, un uomo di nome Antonio. Mi è impossibile affermare che Antonio fosse un pescatore, ma di certo era una persona dai numerosi talenti.

Si era trasferito da Napoli nel Nord Italia quando era ancora ragazzino, per aiutare un lontano zio titolare di un’impresa edile. Oltre a una certa abilità con i mattoni, il mio amico Antonio dimostrò di essere anche un bravo idraulico, ma non mancò neppure di rivelare ottime doti ai fornelli. Fu così che si trovò a lavorare per diversi anni nelle cucine dei più rinomati ristoranti sul lago di Lecco.

Il tempo per Antonio, così impegnato in molteplici professioni, scorse talmente in fretta che egli raggiunse l’età della pensione senza nemmeno accorgersene. E di lui non si accorsero neppure gli istituti previdenziali, giacché il mio amico Antonio non ebbe mai, per l’intera vita, il privilegio di un contratto di lavoro regolare.

Egli si ritrovò in tal modo a dover sopravvivere con il minimo delle entrate, e allo stesso tempo a provvedere anche alla bella Teresa. La quale era sua moglie e, da giovane, era considerata la donna più avvenente di tutto il lago del Segrino. Anche lei era però invecchiata e, scomparsa la bellezza, le era rimasta l’ambizione.

Antonio, che con l’età avanzata non aveva però perso l’eclettismo, pur di accontentarla si era improvvisato pescatore e, realizzato l’occorrente con le canne di bambù che spuntavano intorno al lago, si mise a portare a casa ogni genere di pesce.

Talvolta erano delle misere alborelle, talaltra era più fortunato, e nel piatto finiva un pesce persico. La bella Teresa era però sempre scontenta, perché oltre al pesce desiderava, anzi voleva, anche del vino bianco. E della migliore qualità. Antonio non poteva però offrirle che l’acqua della fonte, a dire il vero freschissima e dissetante.

Una sera, la vigilia di Natale, Antonio era particolarmente demoralizzato poiché il lago era ghiacciato e non gli sarebbe stato facile riuscir a portare alla bella Teresa di che sfamarsi. Mentre si arrabattava a cercare di forare la superficie del lago, il mio amico Antonio scorse un pesce dirigersi verso di lui. L’uomo si affrettò a rompere lo strato di ghiaccio pestando forte con le proprie mani, senza pensare che avrebbe potuto spaventare il pesce.


Questi però, non appena si accorse dello spiraglio praticato da Antonio, saltò fuori dall’acqua e si gettò nel retino del pescatore. “Oh che burla è mai questa, ero disperato ed ora un pesce mi salta direttamente nella bisaccia!”, pensò il vecchio. “Non è una burla, ma ora dovrai prendere una decisione”, risuonò una voce nei canneti.

L’uomo si guardò intorno, ma non vide nessuno. “Ora la fame mi gioca brutti scherzi per davvero! Ero povero, ma mi era rimasto un fine intelletto. Ora non ho più nemmeno quello!”, si disse il vecchio. “Se pensi di essere così intelligente, allora capirai che sono io a parlare”. Antonio scrutò con gli occhi l’oscurità del lago, ma non gli rimase che rassegnarsi all’idea che fosse stato il pesce ad aver parlato. “Reggiamo al gioco. Con la follia non si scherza, ma se matto son diventato, tanto vale accettare il mio destino”, pensò il vecchio, che si reputava anche un valido filosofo.

L’uomo, convinto di far bene, e forse per far dispetto, finse di ignorare le parole del pesce, se lo mise nella bisaccia e fece per tornare a casa. Si mise a cavallo della sua vetusta bicicletta, ma non appena compiuta la prima pedalata, sentì di nuovo una voce. Proveniva dalla bisaccia. Era proprio la sua preda a parlare. “Credi che non abbia inteso che tu voglia destinarmi alla padella? Ci rimedierai un buon pasto, ma se ti fossi risolto altrimenti ne avresti tratto maggior guadagno”.

Antonio si fermò per un momento, “Non devo lasciarmi ingannare. È noto che i pesci sono dei gran raccontafrottole!”, pensò. Compiute altre pedalate, di nuovo la voce echeggiò nelle orecchie del vecchio: “O forse sono i pescatori a raccontar le frottole? Non hai mai rischiato alcunché nel corso di tutta la vita, e ricco non sei diventato. Al più perderai un pesce abbrustolito, anzi metà, perché dovrai condividermi con tua moglie”. Antonio si arrestò. La soglia di casa era distante solo poche decine di metri. “E come sai tu che io son sposato? Sei forse un pesce fatato? Va bene, mi hai convinto con la tua parlantina!”, esclamò Antonio, il quale voltò il velocipede e ritornò sulle sponde del Segrino, ben attento a non incrociare alcuno che potesse riconoscerlo.

In prossimità dell’acqua, incerto e in preda al rimorso, il vecchio aprì la bisaccia e restituì l’animale alla natura. “Sei un cervello fino”, gli disse il pesce facendo capolino dalla superficie del lago, “Ora quel che desideri, l’avrai”. Poi sparì.

Antonio si sentì smarrito, poiché si sarebbe aspettato perlomeno un anello magico da strofinare. Non aveva mai sentito di desideri espressi e realizzati con la mente, senza il tramite di un oggetto. La luna illuminò in quell’istante la sua bicicletta, un po’ sporca e maltenuta, oltre che datata. Antonio, cosciente del gran dono della propria intelligenza, comprese all’istante che quel biciclo dovesse fungere da catalizzatore della propria fortuna. Si tolse di tasca il fazzoletto, che pur era stato utilizzato più volte nel corso della giornata, e lo impiegò per pulire il sellino. Poi chiuse gli occhi e si immaginò un cesto di dolciumi e di salumi recapitato al suo indirizzo.

“Dono di vecchi colleghi”, aggiunse il vecchio, non volendo rivelare alla moglie la fonte della propria fortuna. La quale lo attendeva impaziente proprio per mostrargli quanto le era stato appena recapitato. “Ah che gioia e che combinazione! Questa sera il lago era ghiacciato e non sono riuscito a prendere all’amo neppure un’alborella”, mentì Antonio. La Teresa non si mostrò però così gentile: “Non ci hai pensato tu, ma lo han fatto i tuoi ex colleghi. Vedi che te lo dicevo, l’importanza di mantenere le relazioni!”.

Il vecchio non vi prestò attenzione, in parte incredulo in parte desideroso di verificare che la promessa del pesce fosse stata mantenuta. Volle cercare una scusa per tornare sulle sponde del lago e ringraziare quella cara bestiola, ma l’appetito lo trattenne a tavola. Erano mesi che si nutriva solo di pesce e di verdure. Una dieta sana, ma piuttosto noiosa se ripetuta forzosamente.

La Teresa si riservò i bocconi più delicati, ma Antonio era raggiante di gioia premurandosi di nascondere nella tasca dei pantaloni qualche fruttino di marzapane e di frutta candita. “Antonio, è un vero miracolo. Ora ascoltami, prendi queste bottiglie di spumante e portale alla perpetua di don Ambrogio. Serviranno ad estinguere quei piccoli prestiti che ogni tanto ci concede e, siccome è generosa, ricambierà con qualcosa di maggior valore”. Il vecchio non poté che obbedire alla moglie, giacché di tutte le mirabili doti in suo possesso, gli mancava il carisma.

L’uomo prese la bicicletta, si recò fino alla parrocchia, dove le luci erano ancora accese perché ci si preparava alla Santa Vigilia, e suonò alla porta. Gli aprì la perpetua, “Don Ambrogio non c’è, è già in chiesa. Avete bisogno di qualcosa di urgente?”, chiese ad Antonio la povera donna. Il vecchio le donò le bottiglie a nome della moglie, spiegando di averne ricevuta in dono una grande quantità e volerle condividere. La perpetua, che ben conosceva la parzialità di don Ambrogio per il buon vino, accettò con un sorriso l’inaspettato regalo e salutò, chiudendo frettolosamente l’uscio dietro di sé.

Antonio neppure si accorse del lieve sgarbo della donna, riprese la bicicletta, diede una spolverata al sellino e si riavviò verso casa. “Cosa si aspetterà mai la Teresa questa volta? Oh caro signor pesce, o prezioso velocipede, lascia comparire nelle mie tasche tre biglietti della pesca dell’oratorio, ma di quelli vincenti”, pensò il vecchio. Questa volta con un certo impegno mentale, percependo la solennità del momento.

Una volta di nuovo fra le sue quattro, non troppo fredde mura, Antonio abbracciò la moglie e le mostrò i tagliandi della riffa parrocchiale. “Abbine cura, il primo, il secondo e il terzo premio saranno nostri”, esclamò con sicurezza l’uomo. La Teresa lo squadrò da capo a piedi, poi, accennando un sorriso sardonico, gli rispose: “Va bene, va bene. Non abituarti troppo a giocare d’azzardo. Quelle bottiglie erano di spumante buono, auguriamoci siano state ben impiegate”.

La coppia non più giovane si sistemò sul divano. I due presero da uno scaffale un libro da leggere ad alta voce, alternandosi l’uno all’altro al termine di ogni capitolo. In assenza di radio e di televisione, che per i due erano diventati beni di lusso, Antonio e Teresa si dovevano accontentare dei classici in prestito dalla biblioteca comunale.

Venne il giorno di Natale e i due anziani sposini si affrettarono a raggiungere la parrocchia. Alla Santa Messa sarebbe seguita la tavolata di beneficenza, a base di polenta e salamelle, delle quali Antonio era ghiotto. Soprattutto le cibarie erano gratuite per i poveri del paese. Il vecchio era però ansioso del risultato della lotteria.

“Biglietto numero 1257. Il terzo premio, una radio del designer celeberrimo, è assegnato al signor Antonio!”. La Teresa, che poco aveva apprezzato lo scambio della sera precedente, strabuzzò gli occhi e mollò la salamella che stava per addentare. “Biglietto numero 0756. Il secondo premio, un televisore di marca raffinatissima, è assegnato al signor Antonio!”, ruggì di nuovo l’altoparlante. La Teresa sorrise timidamente nella direzione dei commensali. Gli occhi erano tutti puntati su di loro. “Biglietto 1111. Il primo premio, un motorino elettrico con ricarica gratuita per dieci anni, è assegnato al … “. Antonio divenne rosso in viso, realizzando solo in quell’istante di come l’intero paese stesse puntando gli occhi dritti su di lui. “Sa la sorte … la fortuna … il fato ..”.

La Teresa non si capacitava di quale artifizio si fosse servito il marito per vincere i tre premi più ambiti. “Lo dicevo io che le estrazioni sono truccate”, pensò la vecchia comare. Antonio si affrettò ad abbandonare la tavola, per tornare a casa sulla vecchia bicicletta. “Prendi tu il motorino, io il mio antico velocipede non lo lascio per nulla al mondo”, disse l’uomo alla Teresa. La quale, contenta del risultato ottenuto, non pose ulteriori questioni e si mise alla guida del motorino sperando di essere in grado di condurlo fino a casa.

I due si affrontarono nell’enorme locale che fungeva al contempo da salotto, cucina, sala da pranzo e camera da letto. Il bagno e la lavanderia, unico loro lusso, erano al piano di sotto, a fianco della cantina che poi era anche l’autorimessa. “Ti assicuro che è la verità! Se non vuoi credermi te ne darò prova!”, concluse Antonio la sua narrazione, dal suo incontro con il pesce miracoloso ai suoi esperimenti con il sellino della vecchia bicicletta. “Se non menti e sei sincero, allora premurati di trovarmi un nuovo tetto sotto cui dormire. Di questa topaia ne sono ben stanca!”, proruppe la moglie con una nuova versione del suo ghigno.

Antonio si mise il cappotto, uscì di casa, che era ben tenuta e, pur modesta, non era poi una stamberga, e si avvicinò alla bicicletta. Di nuovo ne strofinò il sellino e pensò intensamente al suo appartamento dei sogni. Ne ricordava uno in particolare, in quel di Seregno, dove aveva aiutato a risistemare le piastrelle. Si sarebbe dovuto allontanare dal lago del Segrino, ma avrebbe potuto raggiungerlo anche tutti i giorni a bordo della nuova motoretta rosso fiammante.

L’uomo non rivelò alla moglie i dettagli del proprio desiderio. Il giorno seguente non vi fu alcuna novitä in merito e la Teresa iniziò a dubitare che il marito, con la complicità della perpetua e di qualche generoso parrocchiano, non si stesse burlando di lei.

Il ventisette dicembre furono però contattati dal notaio Galbiati per un lascito che li rendeva proprietari di un attico al sedicesimo piano di via dei Giardini, a Seregno. Il lascito avrebbe consentito loro di coprire tutte le spese necessarie, ristrutturare l’appartamento dotandolo di tutti i comfort e scegliere i mobili della migliore scuola di arredamento italiana. Teresa, in un impeto di felicità, abbracciò il povero Antonio. Il quale si sentiva ancor più imbarazzato poiché da anni la consorte non lo degnava del minimo gesto di affetto.

Trascorsero le settimane e i mesi. Antonio e Teresa si trasferirono nella nuova abitazione e si sbarazzarono della loro vecchia dimora. Antonio avrebbe desiderato tenerla, almeno per trascorrervi la villeggiatura nei mesi più afosi dell’anno e poter mantenere il contatto con gli amici del paese. “Li andrai a trovare sulla motoretta”, gli ripeteva Teresa e Antonio si mise il cuore in pace.

La consorte desiderava però anche una villa per le vacanze. “No, non ho alcuna intenzione di passare il ferragosto in una pensione affollata della riviera romagnola. Deve essere una maison di charme, sulla costa azzurre, a Ramatouelle, immersa nella pineta, vicino alla spiaggia, con una piscina riscaldata per farvi il bagno la sera tarda di ritorno da St. Tropez”. La Teresa aveva iniziato a intercalare nei propri discorsi, termini e frasi in francese. Ora che abitava a Seregno, una città di quarantacinquemila abitanti, voleva essere all’altezza della conquistata posizione sociale. Antonio non pensava fosse giusto approfittarsi a tal punto del dono concessogli dal pesce fatato, ma, affezionato qual era alla sua comare, la accontentò.

Occorse anche un desiderio ulteriore, che concedesse alla coppia un’elegante automobile decappottabile per poter raggiungere la costa azzurra nei mesi estivi. “Che abbia gli interni in pelle e un impianto stereo sul quale riprodurre la mia raccolta di dischi in vinile”, pensò il vecchio. Il bolide gli fu recapitato in pochi giorni, omaggio di una misteriosa fondazione internazionale a sostegno della qualità della vita dei pensionati napoletani nel mondo.

La Teresa non fu soddisfatta poiché sentiva il bisogno di abiti nuovi di un certo ammontare di valuta contante per esibirsi lungo le vie degli acquisti di St. Tropez. “Sulla spiaggia si usa pagare con banconote fruscianti. È maleducazione ricorrere alla carta di credito”, continuava a ripetere la vecchia comare. Finché Antonio non si decise di esprimere il desiderio e dare una stronfinatina al sellino della vecchia bicicletta. La quale non era più tenuta in cantina, ma appesa alla parete dell’attico di via dei Giardini, come un antico cimelio e secondo la moda dei giovani hipster di Berlino.

Anche questa volta il desiderio venne esaudito. L’anziano pensionato si trovò persino sulla prima pagina dei giornali locali per aver recuperato casualmente la refurtiva di una grossa rapina in banca. Gli fu concesso di tenerne ben un quinto, cifra più che sufficiente per non sfigurare tra gli habitué della spiaggia di Pampelonne.

A tanto lusso il povero Antonio non era abituato e il suo imbarazzo cresceva di pari passo con le pretese della consorte. Queste divennero incontenibili una volta raggiunta la Francia, poiché, visti gli yacht ormeggiati nella cala di St Tropez, la donna ne volle possedere subito uno. Non fu disattesa, ma mentre una sera osservava il tramonto, seduta comodamente nel salottino di poppa dell’imbarcazione, la Teresa si trovò circondata da un nutrito gruppo di banditi. Antonio venne scaraventato in acqua. Per via del suo fare umile e dimesso era stato scambiato per un inserviente.
Il tapino riuscì perlomeno a raggiungere la riva a nuoto e, seduto sulla spiaggia dorata, gli parve di non sognare altro che trovarsi nella sua casa di Alserio, ai bordi del lago del Segrino. Avrebbe desiderato piangere, ma non era appropriato per un uomo, soprattutto per un agiato signore della sua età. Quando stesse per alzarsi, risoluto a chiedere l’intervento della polizia, Antonio notò un pesce sbucare dalla superficie del mare.

“Sei tu, mio pesciolino? Sarebbe ingiusto sostenere che tu sia la causa dei miei mali, ma desidero tanto d’averti fritto in padella”, proferì il vecchio con una voce fievolissima, quasi un sussurro. Il pesce gli saltò tra le braccia e agitò la coda per indicargli il bivacco di un gruppo di giovani campeggiatori. L’uomo vi si avvicinò e, a malincuore, apprezzando il sacrificio dell’animale, offrì la sua preda in cambio di un posto intorno al fuoco.

Il pesce finì in padella e la vista di Antonio iniziò ad affievolirsi, rapita dai giochi della fiamma. Il vecchio chiuse gli occhi per un istante. Quando li riaprì, si ritrovò nella casa di Alserio, intorno a una tavola imbandita di ogni leccornia. Era il dono della parrocchia ai poveri del paese, affinché potessero celebrare serenamente il Santo Natale.

Il vecchio gustò con grande gioia ogni boccone, ma non accennò alla moglie alcun dettaglio del suo lungo sogno. La Teresa gli sorrise come da tempo non aveva mai fatto, e quella sera i due si addormentarono sul divano, sotto le coperte, leggendo il Canto di Natale di Dickens.

Di lasciarmi gli avanzi, se ne dimenticarono.

Codice ATU-3, “The Dragon Slayer”, ovvero “Il cacciatore di draghi”.

Tal genere di racconti vede l’eroe, di solito un prode cavaliere, affrontare un mostro minaccioso, usualmente un drago. L’essere orrendo ha la peggio.

 

Titolo così come suggerito da Chat GPT 3.5, “Magnum’s Firestorm: Legends of the Dragon Hunt”

 

Titolo così come scelto dal sottoscritto: “Il commissario Magni e il drago di Portofino”.

 

In un passato non così tanto remoto, nel corso della mia vita millenaria, decisi di piantare le mie radici sui dirupi che circondano il Golfo del Tigullio. L’aria di mare giova alla salute, si diceva fin d’allora, e difatti mi fu facile abituarmi alla quiete della cosa ligure. Al mattino passeggiavo indisturbato lungo i caruggi del Borgo, acquistavo una copia del Corriere Mercantile e abbinavo il dolce delle brioche con il salato delle focacce. Mi svegliavo di buon mattino, per godere della salsedine diffusa nell’aria. Respiravo a pieni polmoni e apprendevo la simpatica parlata locale dai mugugni dei negozianti e delle mamme che accompagnavano i bambini a scuola. I turisti russi e le eleganti signore della borghesia milanese, di prima mattina, erano ancora tra le coperte a smaltire le fatiche della sera. Abitudini assimilate anche dal sciô Magni, un detective che, reduce dalla missione italiana in Libano, era ritornato nella terra natia, si era fatto a palassinna e o giardinétto, infine aveva aperto una propria agenzia.

 

Il sciô Magni aveva ben presto abbandonato ogni aspetto marziale e di fatto campava a ruota dei ricconi che a Portofino dicevan di trascorrere le vacanze. Perché tra loro c’era anche chi, come Mr Higgins, fingeva di custodire una villa enorme per conto di un misterioso proprietario. In realtä avevano intestato tutto a delle società di comodo per evitare accertamenti fiscali.

 

Mr Higgins era uno dei migliori amici di sciȏ Magni ed era colui che più frequentemente lo coinvolgeva in nuove avventure. Quell’inverno non accadeva però nulla e il sciô Magni si stava annoiando, al pari della maggior parte degli agiati pensionati di Santa Margherita. “Non ne avete di nuove avventure da raccontare?”, gli chiedevano Luigi Tabacante e Mario Massacani, abituali frequentatori del lounge bar sulla piazzetta. “Nu ghe n’è”, rispondeva sciô Magni con tono afflitto.

 

Fu proprio in quel momento che i tre furono scossi da un rumore misterioso, un boato fastidioso come il motore di un aeroplano che a stento riesce a carburare. Il fragore fu accompagnato dalla voce acuta di sciâ Etta, la titolare del forno di un caruggio laterale. “Sciô Magni, Sciô Tabacante, Sciô Massacani, ma ditemi che non sono del tutto ammattita. Avete sentito anche voi quel rumore?”. I tre si premurarono, in coro, di garantire che la sciâ Etta non aveva le traveggole, aggiungendo che dovesse trattarsi di un fuoribordo o di un velivolo di un foresto, con il motore non del tutto in regola. “Ma non è così. Mi manca davvero qualche rotella”, insistette la sciâ Etta. “Si calmi”, la prese per mano Luigi Tabacante, che era il proprietario del “Barba Baratta”, il lounge bar dove avvenne quel teatrino.

 

In un continuo di esclamazioni, la fornaia sostenne di aver visto anche l’ombra di un drago proiettarsi sulle mura di fronte alla sua bottega. Ne era certa, perché il proprietario di quell’edificio, che era una gran pigna, attaccata ai propri denari più che ai propri figli, si era deciso di dare il giancu dopo decenni di insistenze di tutto il vicinato ed ora su quella parete ci si sarebbe potuto proiettare anche un film.

 

Sciô Magni, il cui intento era finire la colazione senza essere disturbato, assicurò la sciâ Etta che se ne sarebbe occupato lui del caso. Chiese però il tempo necessario per riflettere e digerire quel che aveva ingollato. La donna fu così felice che portò al piccolo gruppo un pacco di carta unta e bisunta, contenente un chilo di fûgasse fresche di forno.

 

Sciô Magni ringraziò, degustò e, preso commiato anche dai due amici, se ne andò in direzione della villa di Mister Higgins. Costui era un cliente abituale dell’agenzia di sciô Magni, ma al tempo stesso accoglieva spesso e volentieri il detective per portar consiglio sulle indagini che pur non lo coinvolgevano direttamente.

 

Nel microcosmo di Portofino, Mr Higgins era visto come una sorta di Gran Visir, o di Mago Saggio, ammirato in tutto il viaggio per la sua ampia conoscenza. C’era anche chi sosteneva fosse un contamussa, che la maggior parte dei suoi aneddoti fossero inventati di sana piante. “Anche in quel caso bisogna riconoscergli una fantasia senza limiti”, rimarcava sciô Magni. Il quale provava una sorta di ironica ammirazione per il proprio principale cliente.

 

Sciô Magni citofonò all’ingresso dell'imponente villa del turista britannico, prestando ben attenzione a non premere sul pulsante sbagliato. La villa difatti era stata divisa in una dozzina di appartamenti, uno quei quali acquistato da Mr Higgins con la vendita del suo bilocale di Londra. “Oh, sciô Magni, prego, si accomodi, la stavo aspettando”, esclamò Mr Higgins non appena il detective raggiunse il suo pianerottolo. “Non mi dica che non ha preso l’ascensore perché guasto. Avrei potuto provvedere io a farlo entrare dal poggiolo, inviandole il mio tappeto fatato.”

 

Il pensionato londinese era anche un mirabile mago, non un prestidigitatore, ma uno stregone fatto e compiuto, che attingeva i propri poteri da un enorme volume che troneggiava nel salotto di casa. Era uno dei pochi, quell’uomo, ad aver praticato con successo le scienze arcane nel Ventesimo secolo. “Lei, sciô Magni, ha una mente troppo razionale per accettare la magia, ma è un dato di fatto che ci abbia tratto d’impiccio in molte occasioni”, commentò Mr Higgins, aggiungendo un leggero colpo sulla spalla dell’investigatore. Il quale ripetè, punto per punto, i vagheggiamenti della sciâ Etta e la reazione dei suoi amici. “Eppure il boato, l’abbiamo sentito tutti. E abbiamo pensato al motore malfunzionante di un foresto, perché l’ipotesi di un drago nella piazzetta di Portofino ci è sembrata al di fuori della comprensione della mente umana”, concluse sciô Magni.

 

“Ecco, ha detto bene. Voi umani siete ben limitati. Non che io non appartenga alla categoria, ma almeno io alle arti magiche credo. E credo anche a quel drago. Anzi, guardi fuori dal poggiolo, sortisca pure e sgrani gli occhi ammirando l’incanto del cielo.” Sciô Magni si avviò a grandi passi verso l’esterno. Al di là del paesaggio davvero unico che, al tramonto, nel tardo pomeriggio di Novembre, il golfo del Tigullio possa offrire, il detective vide stagliarsi, sullo sfondo rosso all’orizzonte, la sagoma di un enorme drago. Il quale, tra i propri artigli, reggeva quella che pareva essere la sciâ Etta.

 

“Mirabile”, proferì sciô Magni lasciando cascare a terra il cubano che, per darsi un tono, teneva sempre in bocca. Senza mai accenderlo, però, perché l'investigatore, come del resto tutti in paese, era una gran pigna e i sigari costano palanche.

 

Mr Higgins osservò, scuro in volto, la sagoma del detective. Era consapevole che avrebbe dovuto affrontare almeno tre prove ardimentose per liberare la povera sciâ Etta dal drago. Tutti in paese le volevano bene e, siccome non si era mai sposata, poteva in un certo senso essere vista come la Principessa di Portofino. “Anche nel nostro secolo sgangherato, i cavalieri devono correre a mettere in salvo le principesse”, commentò presto Mr Higgins. “Caro Tommaso”, giacché Tommaso era il nome di battesimo dell’investigatore, “ne vedrai delle belle, ma so che il tuo cuore è sincero e ti mostrerai all’altezza della tua missione”.

 

Sciô Magni, che di solito mostrava invece un sorriso smagliante su un volto paonazzo, per il sole e per il buon vino, in quel frangente assunse una posa marziale e, non avendo una visiera da calare sulla fronte, si sistemò il berretto da baseball. “Ora lasciamo riposare. Avremo tempo per recuperare la povera Etta. Devo ricorrere a tutte le mie energie per adoperare i poteri arcani del libro”.

 

Il detective non vide più, di fronte a se, la figura di un modesto, ma elegante pensionato, bensì il profilo di uno stregone, imponente e temibile. Si sentì raggelare i muscoli, mentre tutt’intorno calavano le tenebre. Quel che accadde poi fu nella mente dell’investigatore privato un vago ricordo. Si risvegliò nel letto di casa, assistito dagli amici, sciô Tabacante e sciô Massacane. I due fedeli compagni di bevute gli raccontarono della scomparsa della sciâ Etta e di come Mr Higgins li avesse ragguagliati sulla presenza del drago misterioso.

 

Una creatura sorta dagli inferi, che sarebbe potuto essere sconfitto solo se affrontato durante una notte di luna piena, trafitto da un metallo illuminato dai raggi di Selene. Sciô Magni sostenne che i due stessero farneticando. Si era difatti convinto di esser stato preda di un’allucinazione, ed ora si era messo in testa che i due si stessero burlando di lui.

 

Sciô Tabacante, abituato a convincere i clienti occasionali che il listino del suo lounge bar fosse ragionevole, impiegò tutto il pomeriggio per ottenere la fiducia del detective. Il quale mantenne un certo scetticismo, ed era perlopiù curioso di capire fin dove i suoi amici si sarebbero spinti. Egli avrebbe desiderato essere un cavaliere in grado di affrontare un drago alato, soprattutto nelle sue fantasia di bambino e forse persino di adolescente. Diventato adulto, sciô Magni si era accontentato di diventare un investigatore privato che scorrazzava a bordo di una Topolino rossa nel golfo del Tigullio.

 

Volle però stare allo scherzo e chiese ai suoi compari di accompagnarlo sul monte Righi per verificare sul luogo se quanto raccontato non fosse il frutto di pura fantasia. “Non è che abbiamo anche un lungo coltello da qualche parte?”, si assicurò sciô Magni. Sciô Tabacante si ricordò a quel punto di aver in casa una katana giapponese, dono di alcuni clienti fissi dopo una crociera in oriente. L’aveva tenuta ben nascosta in un armadio, un po’ perché la considerava kitsch, un po’ perché temeva che prima o poi la sua mugliera gliel’avrebbe tirata in testa durante uno scatto d’ira. Se sul Righi ci fosse stato un drago, quella lama sarebbe stata della misura giusta.

 

A tal proposito i tre furono d’accordo e, chi scettico, chi titubante, chi seriamente preoccupato, si accalcarono a bordo della FIAT color ciliegia. Non ebbero percorso che alcuni tornanti, che dalla montagna iniziarono a levarsi dei boati disumani. Il sole era già calato al di là del mare e la notte era  buia, poiché le nuvole avevano ricoperto la luna e le stelle.

 

Non si riusciva a vedere granché all’interno dei boschi e persino le luci dell’hotel erano spente, giacché era proprio il periodo di chiusura prima della stagione invernale e della festa di capodanno. I boati si facevano più frequenti ed anche più intensi. Gli aghi dei pini sembravano flettersi con tutto il ramo sotto la pressione dello spostamento d’aria. I tre giunsero nel parcheggio dell’hotel, quella dove in estate si affollavano le automobili dei villeggianti venuti da Milano. Poiché i genovesi, che erano di scorza ben più dura e non amavano consumar l’essenza, preferivano arrivarci con i cavalli di San Francesco. Persino quel Santo avrebbe però trovato difficile placare l’animale che si parava loro di fronte.

 

Soprattutto dal momento in cui il poverello d’Assisi si rivolgeva alle creature del Signore, ma quel mostro era stato forgiato dalle fiamme dell’inferno. Le stesse che sputava nella direzione della Topolino. Un enorme drago viola si eresse di fronte alla minuscola automobile, la pancia giallognola illuminata dai fari del veicolo. Il quale, a corto di carburante e prostrato dalla fatica della salita, di colpo emise dei suoni buffi dal motore e, altrettanto improvvisamente, si spense. “Pigna di una pigna”, imprecò sciô Massacane, che spesso ripeteva che delle automobili bisognava prendersene cura, per quanto costasse portarle dal garagista.

 

Sciô Magni e sciô Tabacante si erano però già allontanati nella boscaglia e a sciô Massacani non rimase che dileguarsi. Fu a quel punto che il detective si ricordò di aver dimenticato nel bagagliaio la katana di sciô Tabacante. Forse più perché frastornato dai boati del drago che per un atto di coraggio, sciô Magni ritornò sui propri passi per raggiungere la Topolino.

 

Quanto seguì fu repentino e frutto del caso. L’investigatore privato, impugnata la katana tra le mani, la sguainò così come aveva visto fare ai samurai nelle rappresentazioni di Madame Butterfly. Il drago, altrettanto velocemente, si scagliò su di lui. In quello stesso istante le nuvole si scostarono lasciando passare i raggi di Selene, che colpirono dritto la lama impugnata da sciô Magni. Costui non dovette scostarsi di un millimetro, perché il drago si infilzò da solo, in un orribile hara-kiri. Il bestio si contorse per la piana del parcheggio, di fronte agli occhi sgomenti di sciô Tabacante e sciô Masacani.

 

La sciâ Etta corse fuori dall’hotel, la cui porta di ingresso era stata scardinata dalla furia del mostro. La fornaia confermò di essere stata rapita dal drago, ma, messa sotto pressione delle continue domande dei suoi soccorritori, rivelò financo di essere una principessa in esilio.

 

Mr Higgins confermò il tutto nei giorni seguenti: il sangue reale della sciâ Etta. Che in realtà si chiamava Anastasia, così come la padronanza delle arti magiche, alchemiche e divinatorie. Egli stesso era difatti un potente mago, almeno lo era stato, in passato, prima di scegliere il Golfo del Tigullio per allontanarsi da quell’aura di sciagura che perseguita chiunque abbia deciso di coltivare le scienze occulte.

 

Essendo la sciâ Etta avanti con gli anni, ben più di quanti ne avesse il sciô Magni, la principessa e il cavaliere che l’aveva salvato non si sposarono. Si festeggiò comunque, per un mese intero, al lounge bar di sciô Tabacante con le migliori trofie, pesto e fûgasse che la Liguria potesse offrire.

 

Io ero là a vedere, ma dal momento che mi consideravano un foresto, nulla me ne diedero.

 

Codice ATU-2 “The Children of Hameln" (Sara e l’economia delle caldarroste)

C’era, tanto tempo fa, una cittadina a metà strada tra le Alpi e il mare. Sono passati tanti anni da non riuscire a ricordarmi il nome. Non mi sono però dimenticato le caldarroste che all’avvicinarsi dell’inverno, quando le giornate si erano già accorciate, venivano preparate nella piazza dell’antico re di bronzo. Che poi era una piazzetta piccina, dove avrebbero difficilmente trovato spazio per manovrare, nello stesso momento, due carrozze.

 

Sara, la bella venditrice di caldarroste, non viaggiava in landò. Arrivava tutti i giorni di buon mattino con la cesta di castagne sulle spalle, accendeva il fuoco sotto l’enorme pentolone e, per l’orario in cui i bambini uscivano da scuola, le caldarroste erano pronte. Sara adorava i suoi clienti, grandi e piccoli, e assieme alle caldarroste si prodigava in mille saluti di ogni genere. Il suo sorriso curava gli anziani dalla nostalgia della gioventù e i più piccoli dalla malinconia legata a un brutto voto o dalla lite con il proprio migliore amico. Da parte loro, il variegato gruppo dei clienti di Sara contribuiva a mantenere allegra e colorata la piazza del Re de Bronz anche durante le giornate più grigie, quelle in cui alla nebbia si alternava la pioggia e non si vedeva mai il sole. La vita di Sara non era però mai ricca di sorprese, anzi scorreva piuttosto monotona. L’unico strappo a quel regime, le veniva concesso quando le castagne dovevano scaldarsi ancora un poco, i bambini erano impegnati con le prime lezioni del mattino e gli altri mercanti che si affacciavano sulla piazza avevano appena finito di risistemare i propri banchetti e le proprie vetrine.

 

Allora Sara si poteva allontanare giusto qualche minuto dal banchetto delle caldarroste per visitare questo o quell’altro carretto e rimirare i prodotti del momento. Che purtroppo, spesso, non poteva permettersi di acquistare. “Cosa importa poi, di posseder qualcosa di prezioso se non rimane altro che lasciarlo su una mensola a prender polvere. Senza pagar nulla, posso veder ogni giorno delle novità da tutto il mondo, e non mi costa nulla”, pensava Sara, che era povera, ma anche parsimoniosa.

 

Un bel giorno, una di quelle luminose giornate che ricordano il miracolo di San Martino, Sara si avvicinò al negozio di animali di mastro Tobia. “Così devono essere gli zoo delle grandi città”, pensava Sara tutte le volte che vi si avvicinava. Il bianco cagnolone del proprietario le faceva sempre le feste, perché lei non mancava di portar seco qualche castagna da condividere con le deliziose creature di mastro Tobia. Quel giorno però l’occhio curioso di Sara si concentrò su due pappagalli che rendevano il negozio particolarmente colorato. Erano due esemplari che, dal capo fino alla punta delle piume, avrebbero potuto misurare più di un metro, forse un metro e mezzo. Sara non era molto abile in questo genere di valutazioni.

“Chissà quante castagne mangeranno, durante tutta la giornata”, si domandò la ragazza. Le piume di quegli uccelli erano di un rosso sfolgorante, interrotto solo da alcune strisce dalla tonalità indefinita. A Sara di primo acchito parvero bianche, poi, quando i due uccelli, che erano dei pappagalli, si misero a parlare, le piume sembrarono riflettere la brillantezza dell’oro. “Saranno mai dotati di poteri magici? Hanno un che di strano, di esotico.Molto più di quanto un pappagallo possa sembrare tale. Che poi, i pappagalli saranno anche esotici, ma in questo mondo moderno li trovi un po’ dovunque. Un po’ come l’ananas, che finisce anche sulle pietanze tradizionali”. Sara, a suo modo, sapeva elaborare dei pensieri complessi in testa, molto più di quanto ci si sarebbe aspettato da una venditrice di caldarroste. Del resto, vi sono anche eloquenti avvocati che non sono in grado di ragionare al di fuori dai binari del codice che han studiato.

 

Sara tornò al banchetto delle caldarroste, ma anche quando le si avvicinavano i clienti a lei più affezionati, le era difficile distrarre la mente da quei due pappagalli dalla chioma rossa. Mentre consegnava i pacchetti di caldarroste, li immaginava volare di fronte a sé, posarsi sul suo carretto, chiederle con il cenno del becco un paio di castagne. Sara era totalmente rapita dalla loro visione che, per la prima volta nella sua vita, provò piacere all’idea di possedere qualcosa al di fuori dello stretto indispensabile per la sopravvivenza.

 

La ragazza si considerava povera, e tale tutti la reputavano, ma nell’angolo più angusto di casa aveva accumulato negli anni un buon numero di monete d’oro. “Per la vecchiaia”, si ripeteva tutte le volte che contava quel mucchietto di prezioso metallo, aggiungendovi, all’occasione, un pezzettino. Sara però stava perdendo il senno e, preso il sacchetto di pecunia, si avviò per la piazza del Re de Bronz. Questa volta non per vendere, ma per comprare.

 

 A passo deciso, ignorando il suo banchetto delle caldarroste e la frotta di bambini che vi si faceva intorno, la ragazza entrò nel negozio di mastro Tobia. “Buongiorno Sara, qual buon vento. Come posso aiutarti? Non sei impegnata con le castagne?”, le sorrise il negoziante, che talvolta aveva la sua malizia. Propria, del resto, di tutti coloro che si affidano al dio Hermes. “Avete ragione mastro Tobia, i bambini mi attendono e occorre fare in fretta”, rispose

Sara, allargando gli occhi per girarsi intorno e curiosare  se i pappagalli non fossero già stati venduti. “Cerchi qualcosa di particolare?”, le fece mastro Tobia, che invece strinse gli occhi premeditando la conclusione di un buon affare. “Ecco, desidero acquistare i vostri pappagalli, quei due pappagalli rossi che tenete spesso in vetrina”, rispose Sara, quasi titubante. “Ecco, ecco cosa voleva”, meditò tra se e se il venditore di animali, cercando di immaginare quanto la fanciulla avrebbe potuto permettersi di elargire. Il negozio di mastro Tobia manteneva difatti il fascino di quelle botteghe dalla vecchia maniera, dove il cartellino dei prezzi non era esposto al pubblico, ma il montante per la compravendita veniva pattuito a seconda della bisogna e dell’abilità delle due parti in causa.

 

Mastro Tobia addocchiò il sacchetto che Sara stringeva tra le mani con tanta cura e le chiese: “Cos’hai lì dentro?”. La voce del mercante suonava melliflua e suadente. Sara, che considerava mastro Tobia un vicino di banco e collega, si fidò di mostrargli interamente il contante così gelosamente custodito.

 

“Bene bene, ne hai abbastanza per garantirti la proprietà delle due bestiole. Ma bada bene, dovrai prestar loro il massimo riguardo, perché sono animali sensibili e intelligenti. Se li trascurerai, ti abbandoneranno ed io non ti restituirò i tuoi quattrini”, ammonì mastro Tobia, il quale si premurò di approfittare dello stato d’animo di Sara per toglierle di mano il gruzzoletto. La caldarrostaia, incantata dall’idea di possedere i due pappagalli rossi, non si accorse neppure di aver concluso il patto e si diresse verso la gabbia dei due animali. “Per oggi non potrò lavorare, è più prudente che porti i miei nuovi amici nella mia casetta, all’aperto prenderanno freddo e si ammaleranno. Il Signore non voglia che succeda loro un malaugurato evento”, si disse Sara e, salutando distrattamente, sortì dalla bottega di mastro Tobia.

 

“Come vi chiamate?”, chiese Sara ai due pappagalli, il cui colore irradiava la misera stanzetta che costituiva la dimora della venditrice di caldarroste. Un antro dalle pareti grigie, dove le uniche tonalità erano date dalle travi, in solido legno di quercia, del soffitto e delle finestre, nonché dai sacchi di castagne depositati sul pavimento. Sara aveva un solo tavolino, sul quale pranzava e, a fine giornata, teneva i conti del suo banchetto. Vi posò sopra la gabbia degli uccelli e aggiunse: “Rimarrete qui, questo sarà il vostro posto d’onore. Nella ciotola della zuppa posso attingere il pane anche rimanendo in piedi e per far di conto mi basterà il letto”.

 

Ma il letto non le bastò, perché nei giorni seguenti Sara iniziò ad allungare la sua pausa per il pranzo, a sortir dall’uscio di tarda mattinata e tornarvi ben prima dell’imbrunire. Pur di non lasciar soli i due pappagalli, che incantavano la nuova padrona agitando le ali e facendo sfoggio della loro conoscenza del linguaggio umano. Il loro nome restava però ignoto. Quando un giorno, incontrato mastro Tobia al di fuori della bottega, Sara lo interrogò al proposito, ma l’astuto mercante le rispose che tale informazione gli era del tutto ignota. “Ma dimmi, Sara, ti vedo sempre meno al tuo banchetto. I bambini e i vecchi si lamentano che senza di te la piazza del Re de Bronz non è più la stessa”. Sara gli rispose di pazientare, ma che ora doveva dedicare il suo tempo ai pappagalli.

 

Che finì col crescere, la porzione della giornata destinata a quei maestosi esseri, fino a decretare il quasi abbandono del banchetto delle caldarroste. La fanciulla, ormai del tutto priva di entrate, iniziò a nutrirsi delle castagne che avrebbe dovuto riservare alla propria clientela. Erano della migliore qualità, perché fino a quel momento gli avventori, abituali e non, del banchetto delle caldarroste, avevano ricevuto tutte le migliori attenzioni. Costituivano in un certo senso l’intero mondo di Sara, e forse persino la sua famiglia. Nelle mani vecchie e ossute, solcate dalle vene blue, dei signori più attempati, la ragazza rivedeva quelle del suo nonno. Negli occhi dei genitori riconosceva il sentimento del suo papà e delle sua mamma, che le trasmettevano i propri abbracci. Nei sorrisi dei bambini, la propria infanzia, quando raccoglieva con passione le castagne nei boschi ripetendo che un giorno le avrebbe anche cotte e vendute, facendone una professione. Ora però il cervellino di Sara era rivolto altrove e neppure si accorgeva che un universo, per quanto in miniatura, rimpiangeva la sua assenza.

 

Se ne lamentava anche mastro Tobia, “Avrei dovuto essere meno avido. Sono riuscito a vendere quei pappagalli, ma senza lo splendore delle loro piume, chi si ferma a rimirare le vetrine del mio esercizio? Coniglietti e tartarughine a distanza non si vedono. E senza quella caldarrostaia benedetta, non passano qui di fronte neppure i bambini nel doposcuola”. Mastro Tobia non era l’unico a veder diminuire il volume dei propri affari. Anche il fioraio, il cartolaio e il prestinaio, il quale era inoltre pasticciere, non erano felici del nuovo corso della piazzetta. Se i clienti si diradavano anche in uno solo di quei negozi, conseguentemente ne perdevano tutti i banchetti limitrofi. Per la piazzetta del Re de Bronz, la passione di Sara per i due pappagalli era diventata una vera sciagura.

 

La caldarrostaia non navigava in migliori acque, poiché i pappagalli iniziavano a lamentarsi della monotona dieta a base di castagne. La povera Sara era disperata, perché i sacchi di iuta che contenevano le castagne erano ormai vuoti e non sapeva più come sfamare né se stessa, né le proprie creature. “Se vuoi saper come ci chiamiamo”, dissero improvvisamente i due volatili, vedendo la caldarrostaia girare in tondo nella piccola stanza, colta da un'irrefrenabile isteria, “Noi siam Disgrazia e Spensieratezza. Se non ci nutrirai come hai fatto finora, apriremo la gabbia con i nostri artigli, sfonderemo i vetri della finestra con i nostri becchi e ce ne voleremo via”. Fu a quelle parole che Sara si accorse della miseria della sua casetta e della follia delle sue azioni. “Voi ve ne andrete, ma come dico io. Se mastro Tobia non vi vorrà indietro, allora vi scambierò per due sacchi di castagne e, con fortuna e dedizione, ritornerò alla mia vita”, pensò Sara tra sé.

 

Maestro Tobia non si fece ripetere due volte l’offerta e, in uno slancio di generosità, restituì a Sara metà della somma originariamente pattuita. “Son diventati vecchi, è passato del tempo, son stati mal nutriti…”, cercò di giustificarsi mastro Tobia con la caldarrostaia. In realtà non era passato neppure un anno, che nella vita ottuagenaria di un pappagallo è ben poca cosa, ma Sara non se ne curò.

 

Con una parte della somma intascata, la fanciulla riavviò il suo banchetto. Era di nuovo autunno e i bambini accorsero in piazza del Re de Bronz con l’entusiasmo di sempre. I commercianti tutt’intorno videro i propri affari rinvigorire. Mastro Tobia, congratulandosi con se stesso, perse di vista i due pappagalli. I quali, aperta la gabbia in cui erano rinchiusi con i propri artigli, se ne volaron via. “Poco importa, non li ho pagati che una frazione dell’oro che mi hanno fruttato. Di Disgrazia e Spensieratezza non ne ho più bisogno. Mi bastano il profumo delle caldarroste e il sorriso di Sara.”

 

Questo accadde tanto tempo fa ed io ne fui testimone. I dettagli di quel che non vidi, fu Sara a fornirmeli, ma le caldarroste dovetti pagargliele.

 

- Codice ATU -1 “The Frog King, or Iron Henry”.

Una principessa incontra una rana e, piuttosto riluttante, la bacia. Il ranocchio si trasforma in un bellissimo principe

 

Titolo, così come suggerito da ChatGpt 3.5, “Il Principe del Dinosauro e il Ruggito Comico nella Repubblica Democratica”.

 

Titolo, così come riadattato dal sottoscritto: “Il Principe Dinosauro e le ninfe d‘acqua”

 

C‘era, non molto tempo fa, una repubblica democratica tanto antica da aver istituzionalizzato i titoli nobiliari delle famiglie di più alto rango che per secoli si erano dedicate all‘attività politica. Non che un comune popolano non potesse votare o esprimersi liberamente, ma se si fosse fatto avanti nessuno gli avrebbe dato retta. Questa però è una favola e i nostri piccoli e grandi lettori non devono crucciarsi delle vicissitudini costituzionali di quel paese. Che era situato in un luogo incantevole, sulle rive di un lago scintillante, nel quale si specchiavano il sole, la luna, le stelle e, con la dovuta frequenza, anche le nubi.

 

Lungo le rive del lago, la principessa Isabella, nipote e cugina di un buon numero di parlamentari e magistrati di alto rango, passeggiava quotidianamente osservando le meraviglie della natura. Un giorno si imbattè in Giglio, una ninfea dai tratti singolari. “Chi ha parlato?”, iniziò a dire la principessa, che in quel momento si trovava tutta sola senza che anima viva possa esserle testimone. “Indovina indovinello sono io e non son quello”, continuò a ripetere Giglio, finché la Principessa non si accorse di lei. “Io son Giglio, la ninfea parlante, ne ho dette molte e fatte tante”. La Principessa, ch‘era d‘animo buono, non si innervosì di fronte alla pedanteria di Giglio. La quale pesava d‘esser spiritosa.

 

La Principessa si avvicinò alla ninfea, le accarezzò i petali e la riempì di complimenti. “Vuoi che ti racconti una storiella divertente?”, riprese Giglio il suo monologo. La Principessa, che era di buon cuore, ma anche curiosa, continuò ad accarezzare le foglie della ninfea. Ormai le era chiaro che Giglio avrebbe proseguito con quella sorta di monologo. “Ti sei mai domandata che fine abbia fatto il Principe Leonardo? O pensi che se lo sia sbranato un leopardo?”, chiese improvvisamente Giglio.

 

La Principessa, che aveva conosciuto il Principe Leonardo fin da piccola e l‘aveva spesso incontrato alle riunioni di partito, considerato che i genitori appartenevano alla stessa fazione politica, emise un sospiro. Temeva che, per quanto improbabile, il suggerimento di Giglio potesse corrispondere alla verità. “Eh! Ti sbagli! Ti sei spaventata, ma tutto si risolverà prima che l’asino ragli”. La Principessa iniziava ad essere irritata dalle rime della ninfa, ma sapeva che doveva essere gentile se voleva venir a capo di qualcosa. “Resta attenta alla mia favella, è così interessante la mia novella. A ruggire non è il Leopardo, ma il Principe Leonardo. Un suono così giocondo, da far ridere tutto il mondo. L’ha trasformato in un giullare per potersi vendicare. Son le ninfe birichine, arcinote e merchine. Or il povero principino è stato tramutato in un dinosauro”. La mancanza della rima finale suonò come un tuono che colpisce l’udito in una giornata serena.

 

La Principessa prese seriamente le parole di Giglio, ma si limitò a osservare la ninfea come inebetita. Soprattutto si domandava cosa avrebbe potuto combinare il Principe Leonardo per suscitare l’ira delle ninfe birichine. “Forse gli è stato sufficiente avvicinarvisi. Di questi tempi non è un vero torto l’origine delle dispute, piuttosto un’invidia, un’antipatia, un passo compiuto nel momento sbagliato”. Ne sapeva qualcosa, la Principessa, cresciuta tra alti magistrati e parlamentari dell’antica Repubblica Democratica. Rimuginando tra se e se, si accorse che la scomparsa del Principe Leonardo avrebbe potuto suscitare inutili sospetti tra i rappresentanti dei partiti. Nel caso peggiore avrebbe potuto acuire i contrasti al punto tale da far venire meno le larghe intese sulle quali si basava la stabilità delle istituzioni.

 

Come individuare un cucciolo di dinosauro, tra i tanti che in quel periodo dell’anno si aggiravano intorno alle sponde del lago, era però un punto ignoto. L’unico a poter chiarire quel mistero, prima che fosse troppo tardi, era il Mago Saggio. Del quale si ignorava il nome e il paese di origine, ma la cui sapienza era da tutti, o quasi tutti, presa in grande considerazione. Se non da qualche fine umorista, tra i pochi a osare a mettere in discussione talune trovate del Mago Saggio, in realtà del tutto prive di logica. La Principessa mise in tasca la ninfea e si avviò verso la dimora dello stregone. Giglio non parlava più in rima, ma avanzava le sue rimostranze per essere stata arruolata, contro la sua volontà, in un’impresa apparentemente senza soluzione.

 

La spelonca dell’uomo magico non era molto distante, e non era nemmeno una stamberga, bensì un’elegante casa in legno con vista su tutto il lago. “Benvenute, benvenute, vi stavo aspettando. Benvenuta Principessa e benvenuta a te, piccola Giglio. Non sono necessari poteri magici per comprendere che primo o poi qualcuno si sarebbe rivolto a me per venire a capo della scomparsa del Principe Leonardo. Ed una principessa non è meno di quanto più adatto”. L’uomo, vestito in un buffo mantello ricoperto di stelle e segni zodiacali, fece accomodare i suoi ospiti. “Ho appena sfornato una specialità culinaria, molto amata nelle Repubbliche del Nord. Si chiama Pizza Hawaii e abbina il sapore dolce dell’ananas con il più delicato prosciutto del nostro entroterra. Sono convinto che potrebbe aiutarci a risolvere l’impresa”.

 

La Principessa era al corrente dell’originalità del Mago Saggio. “Se ha la nomea di saggio, assecondiamolo ed assaggiamo questa torta. Si è guadagnato la fama di savio, non di uomo crudele, e pertanto non tenderà tranelli né a me, né a Giglio". La ninfea, che era stata gentilmente depositata in una bella ciotola piena d’acqua, non commentò, felice di non poter assaggiare la pizza Hawaii. “I dinosauri son ghiotti di ananas, ma sono vegetariani. Se uno dei loro cuccioli si avvicinerà alla pizza e vorrà provarlo, ciò significa che le sue qualità umane si sono risvegliate. Assaporandone anche un solo boccone, il dinosauro Leonardo ritornerà ad essere un Principe. Tu però dovrai rintracciarlo e conquistare il suo cuore con un bacio, anche se lo troverai tra gli acquitrini, tutto sporco e coperto di fango”.

 

Per la Principessa l’idea di avvicinare le labbra alla dura pelle di un piccolo dinosauro non era attraente, ma ormai si era convinta che questo fosse un compito da portare a termine. D’altra parte, fuorché presenziare alle cene di beneficenza organizzate dal partito, la Principessa trascorreva lunghe e noiose giornate lungo la riva del lago. “Sarebbe un diversivo”, e, con una sporta contenente una grossa fetta di pizza Hawaii, la Principessa si avviò alla ricerca. “Ma come farò a riconoscere il Principe Dinosauro? Non potrò baciare tutti quei cuccioli, sono tantissimi”, chiese la Principessa al saggio Mago prima di lasciare la sua spelonca. “Quelle ninfe che hanno compiuto la magia sono dispettose, ma dotate di un grande sense of humour. Sicuramente avranno aggiunto qualche buffo elemento alla loro trasformazione”.

 

La Principessa si convince che avrebbe dovuto portare pazienza e si avviò. Cammina cammina, la Principessa si decise che quel giorno avrebbe compiuto il giro del lago e, se fosse stata fortunata, avrebbe presto incontrato il Principe Dinosauro. Si sentiva la pancia piena della Pizza Hawaii offertale dal Mago Saggio e una passeggiata non potè che farle bene. Giunse presto alla panchina rossa che uno scultore amico di un presidente del Parlamento aveva concepito per festeggiare le avvenute elezioni. Vi si sedette e mise in bella mostra il trancio di Pizza Hawaii. Le si avvicinarono tanti cuccioli di dinosauro, ed anche qualche mamma di dinosauro, piuttosto guardinga e minacciosa.  Nessuno di loro era però più buffo di quanto un cucciolo di dinosauro potesse esserlo per natura. La Principessa tirò fuori dalla tasca anche Giglio, che si mise a cantare. “Se l’attesa ora ti pesa, con pazienza e diligenza, non cessare di aspettare, aguzza l’occhio e l’udito, il Principe Dinosauro verrà e il tuo compito sarà finito”.

 

La Principessa si rallegrò che Giglio parlasse ancora in rima, quelle assonanza le infondevano ottimismo. Era però giunto il tramonto, e la fetta di pizza Hawaii nessuno, tra i dinosauri, la voleva. Per la Principessa, ormai a digiuno da diverse ore, la vista di quel delizioso cibo costituiva un tormento, ma Giglio la sostenne. “Se la tua missione vorrai affrontare, ci sarà ben altro da mangiare”, e la Principessa si trattenne. L’autocontrollo della Principessa fu però premiato.

 

Tutto d’un tratto la nobile fanciulla udì uno strano rumore, a metà tra un ruggito e il buffo bofonchiare di un clown. Si voltò intorno, ma non vide nessuno, se non un piccolo esemplare di dinosauro, tutto sporco e coperto di fango come aveva previsto il mago. La Principessa osservò quel cucciolo, il quale le rispose spalancando la bocca ed emettendo di nuovo quello strano ruggito. La ragazza si mise a ridere e il piccolo dinosauro le si avvicinò, producendo ulteriormente quella buffa litania che solo il più abile dei comici avrebbe potuto concepire.

 

L’effetto fu tale che la Principessa si trovò subito di buon umore e, senza pensarci due volte, diede un braccio al Principe Dinosauro tutto coperto di fango. Il dinosauro si rotolò su se stesso, poi vide la fetta di pizza all’ananas. “Ne vuoi?”, chiese la Principessa. Quell’esserino sembrò dire “Sì, che delizia!”, ma di nuovo ruggì. Afferrata la pizza tra le mani, la Principessa la offrì al dinosauro, che in un solo istante mutò le proprie sembianze rivelando il Principe Leonardo. “Non ne sono stupita", disse la Principessa, che lo abbracciò di nuovo.

Quel trancio di pizza poteva essere sufficiente per un piccolo dinosauro, ma non per saziare l’appetito dei due giovani. I quali si misero in cammino verso la città. Alle ninfe birichine non rimase che allontanarsi per qualche tempo dalla Repubblica Democratica, sapendo bene che avrebbero rischiato una pena severa.

 

Come alla conclusione di ogni lieta novella, il Principe e la Principessa si conobbero meglio durante il percorso, in breve si innamorarono l’uno dell’altra e da lì a una settimana furono celebrate le nozze. Cui parteciparono anche il Mago Saggio, che donò alle cronache della Repubblica Democratica la ricetta della pizza Hawaii. Giglio celebrò l’evento con un intero poema in rima baciata. I dinosauri continuarono a brucare l'erba lungo le sponde del lago ed a me, testimone di quanto avvenne, rimase solo il ricordo di quel lieto evento.

Progetto Novello Calvino

Cari lettori, si apre con questa breve, e spero non tediosa, introduzione un ciclo di favole che segue la celeberrima classificazione di Aarne-Thompson-Uther. Di favole di tal categoria ne esistono ben duemilacinquecento differenti, senza alcuna apparente ridondanza. Vi è poi chi sostiene che la classificazione di cui sopra sia europeo centrica e poco attenta alle forme di vita non binarie. Le favole si sono però diffuse all’interno della civiltà umana nel lungo corso della sua evoluzione. Pertanto non me ne vogliano a male i pretoriani dell’ideologia più aggressiva del momento se non mi piego alle loro richieste e preferisco rivolgermi al mio pubblico in maniera universale. Tantopiù che, se dovrò dedicare ogni settimana a una novella forma di narrazione, mi ci vorranno quasi cinquant‘anni per completare il mio progetto. I che richiede anche un certo ottimismo in termini di aspettativa di vita. Secondo il calcolo attuale dovrei difatti riuscire a sopravvivere almeno fino al novantacinquesimo anno di età. Ed essere ancora lucido. Tra tanti racconti di orchi e streghe troverò pure una pozione di lunga vita che mi consenta di giungere al termine della singolare tenzone. Non me l‘ha ordinato un mago, un Re e tantomeno una principessa. È piuttosto un metodo per fuggire dal mondo incantato delle società di consulenza e ritornare a quel periodo della mia adolescenza, o gioventù, in cui potevo permettermi di dedicare la mia mente ad attività speculative quasi fine a se stesse. Il mio primo racconto con il mondo delle favole non fu però così casuale. Risale alla mia infanzia, quando avevo quattro anni e mia mamma si era messa ad acquistare in edicola una bella raccolta di favole, non tutte tradizionalissime, recitate principalmente dalla splendida voce di Paolo Poli. Seguirono le favole rese a disposizione dalla SIP, allora l‘unica società telefonica italiana, componendo uno specifico numero di telefono. Infine fu la volta di due volumi della BUR, la raccolta delle favole italiane ad opera di Italo Calvino. Al quale devo molto per essere stato in grado di destare in me cotanta attenzione. L‘ho riletto più volte nel corso della mia vita, anche recentemente, superati i quarant‘anni. Ora però i miei lettori si saranno già annoiati di fronte a tanto sfoggio di nostalgiche memorie. Un‘ultima nota però è importante. Nella composizione delle favole mi farò aiutare da Chat GPT, versione 3.5. Vi interagirò in inglese, ma per amor di Calvino - Italo, non il teologo - e della mia terra natale, sarà mia premura imbastire i racconti nella lingua di Dante.

 

Seregno, il 30 Ottobre 2023

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