Wolandica (la versione di Korove’v - antefatto)
Ammetto.
Non mi piacciono quei due letterati di professione, seduti su una panchina a discutere delle rispettive carriere.
So già che cosa ha in mente il Capo, detesta essere chiamato così, ma a me non va di chiamarlo Professore arrotolando la voce in un tubo di servilismo compiaciuto.
Ah, ecco. Già gli si è avvicinato.
Conosco le sue maniere.
Una conversazione non richiesta, un aneddoto del tutto fuori tempo tanto per sbalestrare il pubblico.
Il Paggetto in attesa, si trattiene ritto sulle zampe posteriori, impaziente di sparare la sua battuta.
Io osservo, aggiusto la manica di questa giacchetta detestabile, a quadretti, da vero svizzero.
Evito il fiato del Furioso al mio fianco.
Adesso si è vestito da marinaretto, col dente storto e l’occhio bianco opaco. Ma quando si è tra di noi è ancora più brutto, smania per quel capro che gli Ebrei gli spediscono a perdersi nel deserto per placare la sua ira. Se lo mastica crudo ogni volta.
Lui no, non mi piace davvero.
Almeno con il Paggetto giochiamo a carte e ci divertiamo a barare l’un con l’altro.
Ah, ecco.
Il Capo ha cominciato il suo numero e i pennivendoli gli danno anche retta.
Tendi l’orecchio, Paggetto.
Chissà che cosa si è inventato oggi per accalappiare le sue vittime.
Ah Ah No No No
Non al Griboedov, nessun olio sui binari del tram.
Il Capo vuole farli parlare, ascoltarli.
Questa volta il Capo li tiene in vita, sulle spine, tra gli sgradevoli lazzi di Paggetto e le occhiate cavapelle del Furioso.
Vuole capire come mai scrivano sempre in coro e, bada bene, non lo chiede a me dopotutto Maestro del Coro come lui mi ha invertitamente battezzato.
Mi diceva così spesso: “Ma come fanno a scrivere tutti la stessa identica storia?”
E si infolarmava ogni volta di più.
Una ossessione senile, mi viene da pensare, dopo tanti millenni di lotta.
Ma eccoci qua, tutto insieme attorno al gran tavolo di mogano, di sicuro arrivato per caso nell’appartamento condiviso degli scribacchìni d’apparato.
Paggetto mi tira per la giacca e indica lo stemma dorato in rilievo con le due pistole incrociate.
I vecchi proprietari dell’appartamento.
Mi strizza l’occhio, dall’iride gialla con la pupilla a fessura, ridacchia: “Era così bellina la povera Natalia non Pistohlkors* e manco Romanov bensì Paley, mi ero vestito da ballerinetta per arrivarle accanto ad annusare i suoi profumi ai fiori di Siberia”.
Ma adesso il Capo li ha messi a sedere su una panca recuperata in chissà quale stanzetta e rifornisce le loro scodelle con mestolate di solyanka.
Tra di noi, il Furioso si è messo di buona lena si fornelli e chissà di chi è la carnina affumicata nella zuppa?
Dopo le chiacchiere amichevoli, i due si sentono rinfrancati. Hanno gli stomaci belli pieni e caldi, la carne affumicata li ha messi di buon umore.
Ed ecco che il Capo spara tutto a un tratto la prima missilata ipersonica (tema che lo appassiona ben da prima degli ultimi eventi):
“Ma il nostro caro Korove’v, sempre al mio fianco, vuole per una volta dar fiato all’ugola e far volteggiare al suo personale ritmo i nostri poco entusiasti ospiti?”
E così tocca a me.
Segue…
* Leo Perutz, Tempo di Spettri (Adelphi); Alexander Lernet Holenia, Marte in Ariete (Adelphi).
Mosca. Stagni patriaršie
Courtesy Yulia Siderova