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Le interpretazioni della meccanica quantistica

by G. Vatinno

“Se davvero potete penetrare le sementi del tempo, 
e dire quale granello germoglierà e quale no,
parlate a me…” (Banquo, Macbeth Shakespeare atto I, scena 3)

Introduzione 
La meccanica quantistica (in seguito anche m.q.) si è dimostrata la migliore teoria che abbiamo per descrivere il mondo atomico; come è noto, a tale livello, quella che definiamo “realtà” viene recepita in una accezione assai diversa da quella che siamo abituati a considerare a livello macroscopico, cioè del mondo della fisica classica e che rende conto del mondo in cui viviamo normalmente. Essa nacque nei primi anni del XX secolo, ad opera del fisico tedesco  Max Planck (1858 – 1947), nobel per la fisica nel 1918 ed Albert Einstein (1879 -1955), tedesco poi svizzero ed infine statunitense, nobel per la fisica nel 1921, , per spiegare alcuni fatti del mondo atomico incomprensibili alla luce della meccanica classica o newtoniana. Tali fatti sono la stabilità degli elettroni nelle orbite atomiche, l’effetto fotoelettrico, la “catastrofe ultravioletta” in relazione alla cosiddetta emissione di corpo nero. In pratica ci si accorse che le grandezze fisiche, in particolare l’energia, a livello atomico è quantizzata, cioè non poteva assumere un valore continuo, come nel mondo classico, ma può assumere solo valori ben determinati  (“autostati”), con una certa probabilità. Da notare che, nel mondo classico in cui viviamo, non vi sono effetti quantistici e quindi gli stati atomici subiscono un processo chiamato “decoerenza quantistica” quanto sono interpretati come facenti parte di oggetti del mondo usuale. Tuttavia, permane il grande  problema di capire perché nel mondo usuale macroscopico non osserviamo i fenomeni quantistici.
A causa del principio di indeterminazione di Werner Heisemberg (1901 -1976), formulato nel 1927, dal fisico tedesco nobel nel 1932, non è possibile conoscere con precisione grande quanto si vuole alcune coppie di osservabili fisiche (chiamate “variabili coniugate”) come, ad esempio, la posizione di una particella o la sua quantità di moto oppure la sua energia o l’istante in cui la si localizza. Questo è intuitivo: infatti, a livello quantico, per “osservare” una particella dobbiamo per forza perturbarla anche usando qualcosa di molto piccolo come può essere un fotone (cioè un quanto di luce). Quindi possiamo dire che, ancor prima della creazione della m.q., dal punto di vista filosofico si poteva prevedere che la “realtà” non potesse essere perfettamente “conoscibile” nel senso che abbiamo prima spiegato. Per le variabili “posizione” x e “quantità di moto” p si ha (h tagliata costante di Planck):
\Delta x\Delta p \ge \frac{\hbar}{2}  
L’equazione che governa i fenomeni quantistici è l’equazione del fisico austriaco Erwin Schroedinger  (1887 -1961) nobel nel 1933,e, nel cosiddetto limite classico, essa si trasforma in quella di Newton. La funzione incognita è chiamata “funzione d’onda” (in seguito anche f.d.o.)ed è indicata dalla lettera greca psi, funzione delle coordinate spaziali indicate con il vettore e del tempo t. Tale equazione è quindi:
\left(i \hbar \frac{\partial}{\partial t} + \frac{\hbar^2}{2 m} \nabla^2 - V(\mathbf{r}) \right) \psi (\mathbf{r}, t) = 0
dove V(r) è un eventuale  potenziale sterno.
Una volta nota la f.d.o. di un sistema è possibile conoscere la probabilità associata alla misurazione di certe variabili dinamiche come, ad esempio, l’energia. La probabilità risulta infatti proporzionale al quadrato del modulo della funzione d’onda, secondo quanto definito dal fisico tedesco Max Born (1882 - 1970), nobel per la fisica nel 1954.
P = \langle \psi \vert \Pi \vert \psi \rangle = \vert \langle \psi \vert \phi \rangle \vert ^2.
Come si vede, il principio di Heisemberg, costringe a parlare solo di valori di probabilità e non di certezza nelle misure quantistiche.
Dunque, da un punto di vista puramente funzionale, cioè pragmatico, la f.d.o. risolve tutti i problemi del mondo atomico e, naturalmente, subatomico, ma il vero aspetto problematico della m.q. è nel significato, cioè nelle interpretazione da dare alla m.q. tramite la f.d.o.
In questa ottica si aprono diverse possibilità che in un certo senso hanno dato origine a vere scuole interpretative di cui la capostipite si ri fa alla cosiddetta interpretazione ortodossa di Copenaghen, dovuta al fisico danese Niels Bohr (1885 -1962), nobel nel 1922 ed a  Heisemberg  (che, oltre al celebre principio di indeterminazione, sviluppò anche una “meccanica delle matrici” che poi si rivelò identica alla meccanica differenziale di Schroedinger). Da notare che, in m.q., ogni sistema quantistico è descritto da un vettore nello spazio (lineare) di Hilbert.La linearità dello spazio permette i tipici fenomeni di sovrapposizione degli stati tipici della m.q. Dunque uno stato fisico è rappresentato da un vettore di stato (“ket” in m.q.) che appartiene ad uno spazio di Hilbert (dal nome del matematico David Hilbert, 1862 -1943). Per “estrarre” l’informazione dal ket occorre proiettarlo su un’autostato di una osservabile fisica generando un nuovo spazio di Hilbert, coincidente con la funzione d’onda, chiamato “duale”. Nella meccanica delle matrici gli operatori relativi a grandezze coniugate non commutano. I risultati di una misura sono i possibile auto valori della matrice associata.
La m.q. fu poi estesa nella meccanica quantistica relativistica (chiamata poi “teoria dei campi”) dal fisico francese Paul Maurice Dirac (1902 -1984, premio nobel nel 1933).L’equazione di Dirac è:
(A\partial_x + B\partial_y + C\partial_z + \frac{i}{c}D\partial_t - \frac{mc}{\hbar})\psi = 0
dove A, B, C, D sono opportuni parametri,”i” l’unità immaginaria e “c” la velocità della luce nel vuoto. La soluzione dell’equazione di Dirac portò alla scoperta delle antiparticelle.
Invece, i tentativi di unire la meccanica quantistica e la relatività generale  hanno prodotto molte teorie (stringhe, supergravità, loop, teoria dei  twistor etc.) ma nessuna ancora pienamente convincente.
Tuttavia, in tale ottica possiamo citare l’equazione di Wheeler – De Witt:
\hat{H} |\psi\rangle = 0
ove H è l’hamiltoniana (cioè una grandezza riconducibile all’energia totale del sistema) nella relatività generale quantizzata e la  “psi” non è più la f.d.o. usuale della m.q., ma un campo funzionale che tiene conto di tutta la geometria e la materia dell’intero universo ed è quindi chiamata “funzione d’onda dell’universo”,  f.d.o.u. Stephen Hawking (1942), professore britannico di matematica a Cambridge (UK), ha proposto una f.d.o.u. che obbedisce alla equazione di Wheeler –De Witt e si propone come una “Teoria del tutto” (t.d.t.).

L’interpretazione della Scuola di Copenaghen
L’interpretazione della m.q. di Bohr e di Heisemberg (1927) è quella di considerare la funzione d’onda del sistema come depositaria, tramite il suo modulo quadrato, di tutte le informazioni sul sistema stesso. In questa ottica le particelle, come nel caso degli elettroni in orbita intorno al nucleo atomico, sono da considerarsi, a causa del principio di indeterminazione, de localizzate nello spazio (naturalmente con probabilità totale pari a 1, cioè la certezza statistica). In ogni punto dello spazio sarà dunque associata una probabilità di trovare l’elettrone ma mai la certezza assoluta. Questa indeterminatezza è frutto della perturbazione della misura.
abilità intrinseca del sistema atomico. Infatti, come già detto, non si può conoscere la realtà senza osservarla e quindi, a livello atomico, ma anche molecolare, perturbarla. La teoria è locale ed a-causale, cioè non vale il principio di causa ed effetto in quanto ad una causa certa, l’osservazione, non è detto che corrisponda un effetto certo e ben conoscibile. Da un punto di vista strettamente tecnico, la m.q. di Bohr fu sviluppata come “meccanica delle matrici” seguendo l’impostazione matematica di Heisemberg. Successivamente, Schroedinger riuscì  a sviluppare la m.q. in forma di una equazione differenziale che porta il suo nome. Presto si capì che le due versioni, matriciale e differenziale erano del tutto equivalenti.
Alcuni problemi della interpretazione di Copenaghen
Alcuni grandi fisici del tempo, principalmente Albert Einstein, non erano affatto convinti della descrizione della natura che emerga dalla interpretazione danese della funzione d’onda. Einstein, infatti, riteneva che la “realtà” avesse una esistenza intrinseca che non dipendesse quindi dall’osservatore come sembrava emergere dalla interpretazione di Bohr. Fin da subito furono note alcune bizzarrie della teoria come il famoso gatto di Schroedinger, contemporaneamente mezzo vivo e mezzo morto, o l’esperimento di Young delle due fenditure. In questo esperimento un fotone (o una particella atomica) scolpisce uno schermo con due fenditure. Se non la si osserva tale particella si presenta come onda (forma la caratteristica figura di diffrazione) se invece la si osserva il fotone “sceglie” una delle due fenditure e si distrugge l’interferenza. Dunque il solo atto di osservare la particella “modifica” la sua natura e determina il percorso. Una notevole variante dell’esperimento della doppia fenditura è stata proposta dal fisico statunitense John Archibald Wheeler (1911 -2008); in questo caso, con una modifica dell’esperienza della fenditura, si può, osservando  a posteriori il percorso del fotone, “agire” sul passato determinando quale percorso ha effettivamente “scelto” il fotone. Tornando alle stranezze della teoria quantistica, Einstein riuscì a produrre nel 1935 quello che divenne noto come “paradosso di Einstein -  Podolsky - Rosen” che, a dire degli autori, dimostrava l’incompletezza della m.q. e la necessità di trovare una teoria più completa con l’introduzione di “variabili nascoste” che facessero scomparire l’intrinseca aleatorietà del processo di misura quantistico. Il paradosso, poi confermato sperimentalmente, riguarda la possibilità di conoscere istantaneamente (violazione della località), lo stato quantico di una particella, nel caso in esame la “posizione” anche a distanza arbitraria. questo non violerebbe l’assunto base della teoria della relatività ristretta che afferma che è impossibile l’esistenza di velocità superliminari nella forma di trasferimento di informazione. Nel caso del paradosso infatti non è possibile trasmettere informazione anche se la velocità è effettivamente superiore a quella della luce. In seguito, nel 1952, David Bohm riformulò il paradosso EPR utilizzando lo spin di due particelle e non la posizione e la quantità di moto. Si noti che, se si conserva, anche classicamente la conoscenza di uno dei due spin influenza immediatamente il valore dell’altro, ma in m.q. la differenza è che non si possono misurare con esattezza i due spin correlati a causa del principio di indeterminazione e che quindi si “trasferisce” comunque una “decisione” sullo stato quantico.  Questo è un esempio di “entanglement” (cioè connessione) quantistico in cui si crea una connessione istantanea tra due particelle lontane quanto si vuole ed è alla base degli studi sul teletrasporto quantistico. L’entanglement è stato dimostrato definitivamente dal fisico Alain Aspect (1947) nel 1982, verificando così la disuguaglianza di Bell e, in pratica, dimostrando la validità intrinseca degli aspetti non locali della m.q. Successivamente, nel 1997, Nicolas Gisin, un fisico dell’Università di Ginevra, ha dimostrato sperimentalmente usando fotoni in fibre ottiche che l’entanglement quantistico è reale su distanze di 10.9 Km e che il segnale tra le particelle “viaggia” almeno a 10 milioni di volte la velocità della luce. Tuttavia, tale velocità (che viola la relatività) non può, come già detto,  essere utilizzata per trasferire informazioni (“no  - communication theorem”). dal punto di vista pratico l’entanglement quantistico è utilizzato con successo nella criptografia quantistica.

Per quanto riguarda invece il gatto di Schroedinger si tratta di un gatto chiuso ermeticamente in un contenitore che ha una fiala di veleno collegata ad un contatore che registra il decadimento (quantistico) di un atomo. Se il decadimento avviene allora il gatto muore se non avviene è vivo. Tuttavia, finché non lo si osserva, il gatto si trova in una sovrapposizione quantistica di stati in cui è contemporaneamente vivo e morto. Questo esempio, molto famoso, in realtà non è proprio corretto in quanto, come ha fatto osservare il fisico statunitense Murray Gell – Man (1929), il gatto non è uno sistema chiuso e quindi interagisce con l’esterno respirando e scambiando calore ed altro e quindi non è un vero sistema quantistico come l’elettrone.

L’interpretazione a molti mondi di Hugh Everett o MWI (Many Worlds Interpretation)
Per evitare situazioni imbarazzanti, come nel caso del gatto di Schroedinger, sono stati fatti tentativi di interpretazioni della m.q. alternative a quella ortodossa di Copenaghen. Una delle più esotiche e spettacolari e senza dubbio quella prodotta nel 1957 dal fisico statunitense Hugh Everett III (1930 -1982), detta a “molti mondi”. Infatti, nella interpretazione di Bohr, l’osservatore ha un ruolo privilegiato. E’ lui che provoca il collasso della f.d.o., cioè il fatto che lo stato quantico “scelga” tra le diverse alternative di cui è composto. Per evitare questo, Everett ha pensato che ogni qual volta che si esegue una misurazione quantistica, il sistema in esame si divide in tutte le alternative possibili e ogni copia continua a vivere nel mondo sdoppiato. Per tornar al famoso esempio, quando si osserva il gatto di Schroedinger esso si divide in due: in un mondo è vivo e nell’altro non lo è più. Chiaramente, questo modello, è quanto mai dispendioso in termini di risorse, ma evita fenomeni ambigui come quello del gatto quantico. Da notare che l’interpretazione  propriamente quantistica della MWI fa parte di una più generale categoria di “universi paralleli” (stringhe, superstringhe, brane e  “bolle”) che, soprattutto in cosmologia, è divenuta negli ultimi anni rilevante. Un curioso esperimento mentale proposto inizialmente dallo scienziato austriaco Hans Moravac (1948) nel 1987 e indipendentemente da Bruno Marchel  nel 1988 e poi dal cosmologo svedeseMax Tegmark (1967) nel  1998 con il nome di “suicidio quantico” prevede una sorta di “immortalità quantistica” (QTI = Quantum Theory of Immortality) se l’interpretazione MWI è corretta. Nell’esperimento c’è un evento esiziale per lo sperimentatore (e cioè siamo nei panni del famoso gatto); ad esempio, c’è una “pistola quantica” che uccide con probabilità 0.5 a colpo. Se è vera la MWI ad ogni colpo la scena si sdoppia e uno sperimentatore sopravvive alla pistola quantica con probabilità 0.5. e’ chiaro che si sparano N colpi la probabilità di sopravvivere sarà  ½^N cioè veramente molto “bassa”. Dal punto di vista MWI invece una copia sopravvivrà sempre anche se il numero di copie vive sarà ½^N. In effetti, lo sperimentatore non solo avrà raggiunto l’immortalità ma saprà anche (purtroppo lui solo) che l’interpretazione WMI della m.q. è corretta e tutte le altre sono sbagliate.

Interpretazione di Ghirardi, Rimini, Weber (GRW)
In questa interpretazione deterministica e priva di variabili nascoste, il collasso della f.d.o.  è “oggettivo” e non necessita della coscienza di un osservatore per avvenire. Il collasso avviene dunque spontaneamente quando vengono superate alcune “soglie critiche” di natura fisica (localizzazione spontanea).

Interpretazione di Wigner
Nella interpretazione del fisico ungherese Paul Wigner (1902 -1995), nobel nel  del 1963, della m.q. la “coscienza” , gioca un ruolo chiave. E’ infatti proprio la coscienza a provocare il collasso della f.d.o. Questo è esemplificato in una modifica dell’esperimento del gatto di Schroedinger, chiamato esperimento dell’”amico di Wigner”. tale esperienza prevede che insieme allo  sfortunato gatto sia presente nella stanza un essere umano (dotato di coscienza) che, in un certo senso, viene contagiato quantisticamente dalla indeterminazione dello stato del gatto e quindi si crea un nuovo stato, più complesso, fatto dalla sovrapposizione di “gatto vivo & amico felice” + “gatto morto & amico triste”.
Naturalmente questo apre grandi problemi di tipo sostanzialmente filosofico sul significato della coscienza (o meglio dell’autocoscienza)

L’interpretazione di Bohm
Per ovviare alla intrinseca acasualità della m.q. il fisico statunitense David  Bohm (1917 - 1992) sviluppò un modello della m.q. in cui vi erano delle “variabili nascoste”, in questo caso il cosiddetto “potenziale quantico” che davano ragione di tutta la imprevedibilità della teoria. In questa ottica però si perde la località ed i fenomeni di comunicazione immediata a distanza (e relativi problemi relativistici) divengono preminenti. Questa interpretazione si basa sulla teoria della cosiddette onde pilota del fisico francese Louis de Broglie (1892 -1997), nobel nel 1929. L’ottica di Bohm è quella di un universo in cui tutto è collegato con tutto in un’ottica sostanzialmente olistica.

Bibliografia
B. D’Espagnat, “I fondamenti concettuali della meccanica quantistica”, Bibliopolis, 1980
P. A. M. Dirac, “I principi della meccanica quantistica”, Boringhieri, 1978
W. Heisemberg, “I princìpi fisici della teoria dei quanti”, Boringhieri, 1979
J. Von Neumann, “Mathematical Foundation of Quantum Mechanics”, Princeton Univ. press, 1955
E. Segrè, “Personaggi e scoperte nella fisica contemporanea”, Mondadori, 1976

L’articolo pubblicato su Physical Review, 47, 1935 aveva il titolo “Can Quantum-Mechanical Description of Physical Reality be Considered Complete?”

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